L'Aspromonte liberato

Dom, 08/04/2018 - 12:20

C’è un luogo di cui tutti parlano, immenso, selvaggio, impenetrabile. La montagna dell’incubo, la terra in cui germoglia l’ignoto. Il solo suono del suo nome rievoca e comodamente e goffamente sintetizza l’immagine stessa della ‘ndrangheta. È l’Aspromonte, un nome che torna e ritorna da decenni nelle storie e nella cronache, anche di chi non lo ha mai conosciuto fino in fondo. Negli anni ‘80 tra i suoi boschi labirintici e misteriosi si poteva sparire, per sempre. Racconti che ancora oggi continuano a essere galoppati dalla fantasia, specie quella più sleale. Un’antologia del crimine che negli anni ha sequestrato l’Aspromonte senza chiedere un riscatto. E insieme all’Aspromonte, anche la piccola gente rovinosamente rassegnata, dominata dal senso della sconfitta insieme alla presunzione della colpa.
Eppure sembra tirare un’aria nuova tra le fronde dei castagni e delle querce dell’Aspromonte, tra i faggi e i pini, e gli immensi prati di felce.
Il Parco dell’Aspromonte è in gara per il riconoscimento mondiale di Geoparco Unesco, unica candidatura italiana dopo aver “stracciato”, nella fase preliminari, aree protette blasonate come il Parco del Gran Sasso e della Majella. Un’opportunità preziosa per far conoscere al mondo uno scenario botanico di estrema bellezza.
Si riparte dall’Aspromonte, dunque, un luogo che «certa letteratura giornalistica, disconoscendone la reale identità – ha dichiarato monsignor Giuseppe Fiorini Morosini, vescovo di Locri-Gerace – ne ha voluto sbrigativamente dipingere solo le sfumature negative». Fare dell’Aspromonte il simbolo della bellezza autentica vuol dire sfiancare il “mito” della ‘ndrangheta – che negli anni avrebbe trovato dimora tra le sue cime e le sue radici – liberandolo da quel macigno che ne ha offuscato la vera essenza.
«C’è tanta umanità tra i cittadini dell’Aspromonte; un’umanità operosa e creativa, che merita di avere restituita una dignità destituita da una storia sorda al grido del debole. Una periferia della periferie del mondo – conclude l’arcivescovo di Reggio Calabria-Bova – può essere un patrimonio della collettività. Bisogna sostenere con coraggio questo percorso perché trovando un simbolo di cui andare orgogliosi, come potrebbe essere il Geoparco dell’Unesco in Aspromonte, probabilmente alcuni giovani, già con la valigia in mano, potrebbero pensare di restare nel territorio calabrese per potersi misurare con le sfide dell’oggi partendo proprio dalla risorse naturali di una Calabria bella, ritrovata e liberata». Un’attenzione e un tifo per la nostra montagna che un decennio fa riservò anche Monsignor Giancarlo Maria Bregantini, allora vescovo di Locri-Gerace. Bregantini, in particolare, raccomandò di tenere sempre ben intrecciati il mare e la montagna, le due anime della realtà calabrese. “Ma attento - ammonì - non partire dalla marina, ma dalla montagna. Perché li sono le radici vere della gente di Calabria. Nei paesi interni, nelle tradizioni più dense, nelle lagrime più nascoste. Se il bosco è verde, il mare è blu! Il paese antico fonda il paese nuovo. La montagna è la radice. E se la radice è viva, la chioma sarà verdeggiante”.
Potrebbe essere giunto il momento di rimediare ai guasti di vecchie sciagure, reali e cavalcate, con cui è stata saccheggiata la nostra montagna con oltraggiosa disinvoltura. E incamminarsi su per questo Aspromonte che sale verso l’ignoto, tormentato da curve e controcurve troppo spesso sospese nel vuoto, ma così instancabilmente affascinante.

Autore: 
Maria Giovanna Cogliandro
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