Quel NO alla ‘ndrangheta che nasconde le colpe dello Stato

Dom, 30/10/2016 - 10:27
Durante la manifestazione antiviolenza promossa per dimostrare l’indignazione nei confronti delle violenze di Melito Porto Salvo, la presidente della Camera Laura Boldrini ha pronunciato tre sacrosanti No alla violenza, alla ‘ndrangheta e all’indifferenza. Si è dimenticata, tuttavia, di dire No anche al poliziotto che avrebbe raccomandato al fratello stupratore di negare tutto e al preside che, in un’intervista, ha trattato la vittima come un oggetto...

Durante la manifestazione antiviolenza svoltasi a Reggio Calabria lo scorso 21 ottobre, la Presidente della Camera Laura Boldrini, sottolineando la vicinanza delle istituzioni alla 13enne di Melito Portosalvo vittima di quei vomitevoli abusi dai quali è nata l’esigenza di manifestare, ha sottolineato la volontà del corteo di urlare “tre volte NO: alla violenza, alla ‘ndrangheta, all’indifferenza”.
Noi, oggi, vorremmo urlare un quarto no: quello a (una parte del) lo Stato.
Le parole sacrosante di Laura Boldrini evidenziano alcuni degli innumerevoli mali della nostra terra e, benché non sia da dimenticare (e anzi da sottolineare) che uno dei giovanissimi coinvolti nella violenza alla 13enne sarebbe membro di una famiglia di ‘ndrangheta, citare solo quei tre no, lasciando da parte tutte le sfaccettature che questa orribile faccenda ha preso dal giorno in cui è emersa, significa in qualche modo negare almeno parte dell’evidenza.
Il figlio del boss che stupra la tredicenne e l’omertà dell’intero paese (con qualcuno che avrebbe pronunciato persino l’ingiustificabile frase “Se l’è andata a cercare”) sono gli aspetti più eclatanti di una storia terribile, che non è fatta, tuttavia, solo di quei cliché in grado di rendere il fatto di cronaca degno della prima pagina per intere settimane.
Ciò che Laura Boldrini dimentica, nell’elencare i suoi no, è che, a braccetto con il figlio del boss, a stuprare la 13enne, ci sarebbe andato nientemeno che il fratello di un poliziotto, un rappresentante dello Stato, che non avrebbe esitato a intimare al familiare di negare anche l’evidenza durante gli interrogatori onde evitargli di incorrere nella giusta pena che meriterebbe. Un tutore delle forze dell’ordine, che anziché convincere il fratello a costituirsi gli raccomanderebbe di fare lo spergiuro dinanzi e alle prove che sarebbe stato compagno di merende di un agente del caos, a noi, sembra un paradosso non da poco.
Come se ciò non bastasse altrettanto sconcertanti, poi, sono poi le parole pronunciate dinanzi ai colleghi della Rai dal dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo De Amicis frequentato dalla giovane che, al TG Regionale, ha commentato la vicenda come segue:
«Dove sono i genitori? La scuola viene dopo, i genitori dove sono? Padre e mamma ce li ha, nonni e bisnonni ce li ha questa ragazzina, no? E allora cosa c’entra la scuola? La scuola viene dopo! Prima ci sono i genitori, fratelli e sorelle o chiunque abbia, perché io non lo so chi è questa qua. Poi viene la scuola. Parlate con i genitori, prima, dopo si guarda alla scuola o alla comunità, che si fa i fatti propri e si guarda la propria famiglia. Ed è meglio così!»
Un intervento, questo, indubbiamente dettato dal nervosismo generato dalle illazioni di qualche untore così intento a gettare benzina sul fuoco da puntare il dito anche contro una scuola che, in quanto istituzione, in questo caso è fuor di ogni dubbio non colpevole, ma che risultano tanto più gravi quanto più vengono calate nel contesto di cui stiamo parlando e attribuite a chi le ha pronunciate. Si sarebbe espresso in questo modo, infatti, non un contadino analfabeta che avrebbe comunque pronunciato parole difficilmente difendibili, ma un dirigente scolastico laureato in lettere classiche e docente per anni, che dovrebbe fare della salvaguardia e dell’educazione dei giovani la propria ragione di vita. Anche concedendo al preside l’attenuante di essersi insediato a settembre e che dunque non conosca di persona la vittima di queste violenze, non è accettabile che le si rivolga con un invettivo “questa qua” né che, lui che dovrebbe essere delegato alla formazione della prossima classe dirigente calabrese, sottolinei che la comunità debba farsi i fatti propri e, anzi, che sarebbe meglio si preoccupasse della propria famiglia, lasciando così presupporre alla televisione nazionale che l’intero paese abbia qualcosa da nascondere.
Insomma no alla violenza, un enorme no alla ‘ndrangheta e no all’indifferenza, certo, ma no anche a uno Stato che ritiene accettabile che un poliziotto che avrebbe convinto il fratello a infrangere la legge (per la seconda volta!) continui a svolgere le proprie mansioni e no a un insegnante e dirigente scolastico che, anche se irritato, guarda con glaciale distacco a una sua alunna che ha vissuto un’esperienza terribile, senza dimostrare, almeno ai giornali e alla nazione che lo guarda dal LCD (o, per chi ancora ne ha uno, dal tubo catodico) quel senso di pietas che i suoi lunghi anni di studi dovrebbero avergli reso familiare.
Ricordiamo la vicenda di Melito per ciò che è stato, un atto di schifosa barbarie perpetrato da un gruppo di uomini comuni e non da comuni criminali. Altrimenti, il normale distacco che proveremo nei confronti di questa vicenda farà sì che accadano nuovamente fatti simili.
Tanto è stata e sarà colpa della ‘ndrangheta e contro la ‘ndrangheta non si prendono provvedimenti…

Autore: 
Jacopo Giuca
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