“Il volo del grifone”, storia di una terra che parla poco ma a gran voce

Dom, 19/07/2020 - 16:00

“Il volo del grifone”, romanzo Fortunato Nocera edito da Città del Sole nel 2019, è un romanzo storico, narrato il 31 dicembre 1806 da un personaggio sempre presente nel racconto, ma in maniera defilata, non da protagonista: è una storia vissuta, e quindi valutata, da un umile plebeo. L’epicentro è San Basilio, alias San Luca d’Aspromonte, ma l’ambiente del racconto spazia nel territorio aspromontano, specialmente, ma non solo, del versante jonico e si allarga fino a Napoli. Molti luoghi, come appunto San Basilio, hanno un nome un po’ diverso da quello reale (ad esempio, Gerace è detta Carace e Oppido Mamertina diventa Oppido dei Mori); tanti altri, però, non subiscono questa metamorfosi. La storia narrata va dalla metà degli anni ’30 del XVIII secolo, da quando il regno di Napoli venne retto da Carlo III (esattamente dal giugno del 1735, data di nascita del narrante), all’arrivo dei francesi nel 1806. Tutta l’opera è strettamente intessuta di invenzione e di ambientazione storica, per la quale l’amorosa e dettagliata attenzione dell’autore non ha trascurato nessun particolare che parli alla fantasia e alla memoria del lettore. Pullula di personaggi e anche quelli minori hanno un nome proprio; invece ai secondini di due duelli è concesso dall’autore solo l’appellativo. Nella prima delle due parti di cui si compone l’opera, la più densa, l’autore si mostra attentissimo e assai preciso nel ricostruire e denominare ogni minimo aspetto della vita quotidiana ed economica dei suoi personaggi, compresi i diversi colori delle vetture di volta in volta più adatti a sostanziare la narrazione. Un unico particolare strano: la presenza di un arcivescovo a Oppido. Nella seconda parte, pur non venendo trascurato nessun dettaglio, l’attenzione è più rivolta verso gli eventi generali del Regno, e anche con questo accorgimento viene sottolineato il precipitare della vita di tutta una nazione verso la dissoluzione e la tragedia che pone fine al racconto.
Lo scopo di questa fatica letteraria, dichiarato dall’autore all’inizio e alla fine, è la constatazione della devastazione di un’umilissima, ma umanamente assai vivace, popolazione calabrese a opera dell’invincibile e violenta aberrazione dei grandi della società e della storia. La dedica è offerta “ai martiri dell’eccidio perpetrato a San Luca dai soldati francesi il 16 dicembre 1806”; la postfazione ritorna su questa tragica vicenda, letta come la dolente conclusione di un disfacimento sociale procurato a danno degli umili da parte delle classi dominanti, reso ancora più deprecabile per le conseguenze nefaste sul costume del popolo, quando troppi sono stati costretti a imbestiarsi e a concepire la disonestà come regola di vita. “Una forma di semi-feudalesimo persistette ancora per alcuni decenni del secolo scorso”, conclude la postfazione dell’Autore, ma il lettore comprende che si tratta di un eufemismo: il disastro sociale ancora imperversa nel secolo XXI.
Da quel che ho detto, si evince che il romanzo è animato da una severa e dolente indagine storica. È vero, ma non basta. Questo romanzo storico, a mio parere è, nel suo aspetto più profondo, un racconto di contemplazione e di rimpianto.
Una spia della ricchezza interiore dell’autore appare, già nelle prime pagine, da due particolari che potrebbero sfuggire, tanto sembrano insignificanti: un personaggio, alla vista del sole che sorge dal mare, si commuove e altrettanto fa un altro personaggio di fronte a una aiuola fiorita. Questi spettacoli della natura normalmente sono ammirati dalle non molte persone sensibili che li notano. Se la sensibilità è più elevata, diventano spettacoli goduti. Più a fondo, diventano contemplati. Ma la commozione comporta un moto di gratitudine verso il creato e il Creatore, che trasforma la visione in dialogo e in dolce pianto del cuore. Con questa dote di introspezione, Fortunato Nocera rivede la storia passata. Infatti, proprio questo le dona un fascino di ammirazione e di pianto: il fatto che sia passata. Restano i ruderi e abbondano quelli dei palazzi, dei castelli e delle torri di guardia di età moderna. Quasi tutti sono inabitabili, smozzicati, pericolanti, insignificanti, coperti di immondizie o semplicemente cancellati per donare spazio al regno del cemento. Ma non sono silenziosi.
A una persona così sensibile e profondamente innamorata della sua gente, com’è Fortunato Nocera, i ruderi parlano, le colline raccontano: una storia affascinante, di fatica e di pazienza, di semplicità e di fecondità spirituale, assieme, però, al grande dolore per tanta stupida e rovinosa prepotenza. Questa, secondo me, è la storia viva narrata da Fortunato Nocera, anche se nel romanzo il protagonista è un avventuriero rampante, che dalla plebe sale, a colpi di nefandezze, fino agli onori del titolo comitale.
Il periodo storico scelto dall’Autore e suggerito dai ruderi è assai eloquente: è quello che ha visto il tramonto della classe nobiliare, oppressa dai debiti procurati dalla sua inettitudine e corrosa nel potere civile ed economico da quegli intriganti arrampicatori che poi, nel XIX secolo, divennero gli “gnuri”, per i quali il popolo passò dalla povertà (con totale sottomissione per consuetudine mista a devozione) alla miseria (con totale sottomissione per terrore misto a ignobile interesse). Ancora nel secolo XVIII i nobili erano attenti alla cultura e all’arte, anche nella Calabria di cui si parla nel romanzo, e non tutti i loro costumi erano corrotti: c’era anche l’apprezzamento della bellezza e dei sentimenti sinceri, una lezione pienamente assorbita dal popolo. Leggendo questo romanzo, continuamente ricordavo l’opera ponderosa di due calabresi sullo stesso argomento, trattato dal punto di vista di studio dell’architettura, della scultura e della pittura: Mario Panarello e Alfredo Fulco, “Dalla natura all’artificio”, edito da Rubbettino nel 2015. Anche per loro, come per Fortunato Nocera, la nostra terra parla sommessamente a gran voce.

Autore: 
Domenico Minuto
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