“La teda” torna a nuova vita grazie a Rubbettino

Dom, 28/06/2020 - 18:30

C’è una lettera di Elio Vittorini al direttore del “Giorno”, del 24 febbraio 1959, che ci torna utile per avviare questo nostro scritto sul primo romanzo di Saverio Strati, La teda (pubblicato per la prima volta da Mondadori nel 1957), appena uscito in riedizione presso Rubbettino (con una coinvolgente prefazione di Gioacchino Criaco, che conosce de visu i luoghi e la temperie della narrazione) e che costituisce il secondo volume, dopo Tibi e Tascia, di un progetto editoriale che prevede la riproposta delle opere del Santagatese.
In quel giorno viene pubblicata sul quotidiano milanese un’intervista a Vittorini, che, con la lettera, vuole “precisare” la sua risposta relativa alla domanda: «Dunque per lei non è il Gattopardo di Giuseppe Tomasi il libro più importante del 1958?».
E così scrive Vittorini: «Nossignore. Il libro è certo piacevole, e si pone senza dubbio su un elevato livello letterario, ma non è di alta statura. […] Io preferisco al Gattopardo non solo il libro di Calvino [I racconti, n.d.a.], ma anche, per il ’58, la ristampa dei Racconti di Romano Bilenchi, e anche Il soldato di Carlo Cassola, e anche Il ponte della Ghisolfa di Testori, e anche La teda di Saverio Strati, e anche Gli occhiali d’oro di Bassani. Sono tutti e sei più vitali […]. Ci dicono qualcosa di ancora non risaputo».
«Vitale» e «non risaputo»: sono espressioni che si attagliano perfettamente a questo romanzo di Strati, che vede protagonista mastro Filippo, giovane muratore che, insieme con altri mastri-muratori, arriva a Terrarossa per costruire le case popolari. A Terrarossa, nel cuore dell’Aspromonte, non c’è la luce elettrica e gli abitanti, che vivono nelle grotte o in tuguri precari e che coabitano con gli animali, si fanno luce con le tede (schegge resinose di pino selvatico che vengono usate a mo’ di fiaccola).
Per mastro Filippo è la prima esperienza di lavoro lontano dal suo paese della marina e dal serrato controllo del padre nei suoi confronti. Ora può parlare con le donne che lavorano con i muratori, amoreggiare; si sente libero di realizzarsi.
Aspetta con ansia, la mattina, sul lavoro, che arrivi Cicca, «la più bella di Terrarossa, anzi la più bella di tutti i paesi vicini», che porta l’acqua dalla fontana ai muratori che hanno sete; e anche la calce dal tavolato a portata di cazzuola.
Le schermaglie verbali tra mastro Filippo e Cicca riportano alla mente il contrasto Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo (scritto presumibilmente tra il 1231 e il 1250): per la vivacità delle battute, per la sottile ironia, per le allusioni erotiche. Il protagonista del contrasto di Cielo riesce a superare la iniziale resistenza di lei, che alla fine si concede.
Mastro Filippo non riesce a conquistare Cicca, ma ha successo con altre donne (fidanzate o sposate). Bacia, una prima volta, sulle labbra, Carmela («con quei seni belli e duri»), fidanzata col cugino; quindi l’abbraccia e la bacia più volte, alla fontana. Ottiene tutto dalle sposate: da Rosa («donna bianca e rossa con un bel petto così») e da Giuseppa (che aveva il marito sotto le armi da due anni, in Albania). Con Giuseppa riprova una seconda volta, a casa di lei, quando improvvisamente bussa il fratello malavitoso della donna; e mastro Filippo si salva nascondendosi sotto il letto. Esperienze pericolosissime, a rischio di vita, in quell’ambiente di Terrarossa, dove, anche per molto meno, il taglio alla faccia sarebbe stata la punizione più lieve.
A mente libera, non offuscata dalla libidine, il giovane mastro Filippo (poco più che ragazzo) apprende il mondo da quelli più grandi di lui: fino «a che non crepa il cornuto di Roma, le cose andranno male»; la guerra deve finire; è necessario «liquidarsi il duce e cambiare la faccia della terra»; «quand’è venuto quello della Germania, in Italia hanno speso più di un miliardo, per riceverlo!»; il principale, nel pagare, non vuole riconoscere ai muratori il diritto degli assegni e delle marche; il medico è sempre assente a Terrarossa e la moglie di Biasi muore per mancanza di cure adeguate; la farina promessa non arriva mai; la rivolta delle donne, sotto la casa del podestà (quel «baccalà») per sollecitare l’arrivo della farina; la lettera di protesta a quelli di Reggio per denunciare le disumane difficoltà che affliggono «quelli di Terrarossa».
Questo lavoro di Strati può essere inserito nel genere letterario del romanzo di formazione accanto a opere come Una vita di Italo Svevo, Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, L’isola di Arturo di Elsa Morante, Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia di Leonardo Sciascia.
Come i protagonisti di questi libri, che alla fine delle loro vicissitudini raggiungono la consapevolezza della vera essenza della vita, facendo tesoro delle esperienze vissute, anche mastro Filippo trova un suo equilibrio nel climax ascendente della parte finale della storia.
Succede che due matrimoni, programmati per la vigilia di Natale, non si svolgono. Intanto piove a dirotto per giorni e le case di Terrarossa crollano sotto l’acqua insistente. A Cicca era stato imposto, come futuro marito, un malavitoso (il quale aveva tentato di violentarla in montagna) ed era giunta la notizia dell’imminente ritorno di Salvatore (il fidanzato di sempre). Cicca si suicida, lasciandosi cadere «dalla finestra che si affaccia sullo strapiombo».
Carmela deve sposare il cugino Pasquale; ma il padre di lei è rimasto bloccato in montagna e Pasquale va a raggiungerlo, e non ritorna.
Tutti si rifugiano nella chiesa, l’unica costruzione di ferro e cemento. Crolla anche la casa di Cicca; si salvano i parenti, ma il cadavere di lei rimane sotto le macerie.
Finalmente spunta il sole. E così il saggio mastro Costanzo (quello che leggeva sempre): «A guerra finita, vedrete che spunterà un po’ di sole anche per noi lavoratori. E finirà questa vita di bestie per voi di Terrarossa». E mastro Filippo, cosciente di quanto ha rischiato e dispiaciuto per gli eventi disastrosi, non desidera altro, a pace fatta, che «ripigliare il lavoro con altro amore».
Un romanzo corale, La teda, di denuncia sociale, costruito con misurate cadenze diegetiche, anche se ancora non c’è quell’efficace uso del discorso indiretto libero che pervaderà di poesia le pagine di Tibi e Tàscia.

Autore: 
Giuseppe Italiano
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