Bianca senza semi Panetta di Ferruzzano

Lun, 17/07/2017 - 20:10
I frutti dimenticati

A Ferruzzano, come in tutti i comuni della Locride, fino a pochi decenni addietro, prima delle festività di Natale, venivano preparati dei dolci ( san martine, pittelle di san Martino, petrali, pretali ecc. ) a base di un impasto particolare costituito da fichi secchi tagliuzzati, uva passa, pezzettini numerosissimi di gheriglio di noce, amalgamati in vin cotto dopo una lunga cottura che durava ore ; l’assieme veniva impreziosito da chiodi di garofano e pezzettini di cannella.
Esso veniva posto poi in due lamelle di pasta frolla dolce, aperte ai lati o chiuse attorno e poi infornate; le forme potevano essere differenziate.
Appena i dolci venivano sfornati veniva cosparsa sopra, a caldo ,della glassa ( gialeppo ) ricavata dall’albume d’uovo misto a zucchero sbattuto a neve ed infine venivano abbelliti con dei coriandoli multicolori di zucchero ( diavulicchi ).
Alla base però c’era il lavoro delicatissimo di togliere i peduncoli secchi e i semi dalle uve passe. Tale compito era demandato alle vecchie e alle bambine, che , le prime con dei monconi di denti, le seconde, con i dentini aguzzi, toglievano i semi, mettendo in bocca una per volta, le uve passe, sedute a ruota attorno al braciere.
Assistevano a tale operazione i maschietti, che collaboravano distrattamente o più attivamente mangiando furtivamente qualche mangiata di uva passa priva di vinaccioli.
Alla fine degli 50 del 900. Antonio Panetta, persona straordinaria, capace di operare con ordine e competenza estrema nel mondo dell’agricoltura, ritornò in California , dopo un’assenza di circa vent’anni, per fare visita al proprio figlio che era emigrato in America , quando egli ancora vi abitava.
Prima di partire affidò il suo preziosissimo orto nel paese, che sembrava “ l’orto del Drago ( orco ) “tanto era fornito di ogni genere di pianta da frutto, ad un uomo di estrema fiducia e di sicura onestà; si chiamava Giovanni Paolo Marra, che aveva a suo favore alcuni elementi di distinzione.
Tanto per cominciare era onestissimo perché era “ evangelista “ appartenente ad una setta di puritani guidata da Domenico Gullace, che predicava ai lavoranti dei suoi numerosissimi campi anche quando erano intenti al lavoro.
Facevano parte del gruppo religioso circa cento cinquanta persone che avevano costituito una specie di comunità, perseguitata durante il fascismo, per cui pregavano di notte in posti differenziati del bosco di Rudina, garantiti da uno di loro che funzionava da vedetta.
Domenico Gullace aveva costituito anche una comunità rurale per cui aveva messo a disposizione di tutti i fedeli i suoi terreni che uniti a quelli degli altri, raggiungevano un assieme di circa 150 ettari, che permise loro di superare indenni i morsi della fame del periodo del fascismo e specialmente quello della seconda guerra mondiale.
Gullace aveva imposto ai non sposati la castità e la proibizione a sposarsi, in quanto la “ fine del mondo “, costituita da pioggia di fuoco, era vicinissima, i segni erano chiari, e di conseguenza bisognava guardarsi dalle tentazioni di Satana e a breve presentarsi puri al cospetto di Dio; dotato da tale certezza, il gruppo nello spazio di poco più di cinquant’anni si estinse.
Gianni Marra era fortissimo e capace di lavorare con estrema competenza, aveva una famiglia numerosa che allevò nel timore di Dio e nella temperanza e lo distingueva il possesso di un asino rossiccio, mai più visto qualcosa di simile, maestoso, dotato di una forza prodigiosa, superiore a quello di un cavallo.
Il padre dello scrivente possedeva un asino molto forte e lo scrivente stesso lo riteneva, con orgoglio, il più forte del paese, ma un giorno lo incontrò l’asino di Gianni Marra, che sfuggendo di mano al padrone aggredì quello che riteneva il suo competitore più pericoloso e lo consumò di morsi, costringendolo ad una fuga disonorevole.
Intanto Antonio Panetta da alcuni mesi era in California e vi sarebbe rimasto per svariati mesi ancora, per cui Gianni considerò l’ipotesi che tutta quello che sarebbe stato prodotto nell’orto, sarebbe andato a suo beneficio e di conseguenza ai primi di settembre cominciò ad assaggiare gli acini bianchi di un grappolo molto grande, spargolo e con grande meraviglia si accorse che essi erano apireni ossia erano privi di vinaccioli.
Lo comunicò in giro e tutte le donne della zona rimasero meravigliate e molto interessate, in quanto pensarono ai grappoli senza semi che si sarebbero trasformati in uva passa , per cui sarebbe venuto meno il fastidio, specie per le povere vecchie senza denti e alle bambine dai denti aguzzi, di sottoporsi al fastidio di eliminare i vinaccioli dall’uva passa.
Arrivò il tempo della potatura e molti vicini, parenti ed amici, s’introdussero nottetempo nell’orto e s’impadronirono di qualche tralcio pe cui cominciarono a diffondere la varietà della vite misteriosa.
L’unico che non approfittò di quest’opportunità fu Gianni Marra, evangelista puritano, che considerava il semplice atto d’impadronirsi di un tralcio di un vitigno non appartenente alla propria vigna senza il consenso del padrone, come demoniaco.
Restò il mistero della provenienza della vite apirene e del segreto tenuto per una vita, dell’esistenza di una varietà ritenuta strana.
In seguito alcuni, che si ritenevano degli esperti, affermarono che quella vite fosse una sultanina, ma l’anno scorso dai laboratori del centro sperimentale di Turi emerse un’altra verità per merito del dott. Angelo Caputo: essa non è sultanina e possiede un profilo molecolare unico al mondo.

Autore: 
Orlando Sculli e Antonino Sigilli
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