Castelli sullo Ionio. Pentedattilo

Sab, 25/08/2012 - 20:31

Sembra la mano buona di un gigante che avviluppa, dolcemente, il piccolo centro abitato che gli si addossa fiducioso, proteggendolo nella sua calda morsa. Pentedattilo... cinque dita di dura roccia aperta verso il cielo, un’insolita, suggestiva immagine che si apre, improvvisa, all’interno del selvaggio paesaggio dell’Aspromonte meridionale. Bastano una ventina di minuti per arrivare dalla costa al monte attraverso una stretta ma agevole stradicciola che si apre, serpeggiante, tra una verde distesa di arbusti e di erbe che, d’estate, assumono i colori dell’oro; solo 20 minuti per passare dalla realtà al sogno, dal tangibile all’inafferrabile.
Un piccolo paese senza più pastori, dignitoso nella sua solitudine, ci accoglie luminoso offrendo, ai nostri piedi, le antiche stradicciole, al nostro animo, l’onda calda dei ricordi. Statio romana nel IV secolo dopo Cristo, dal VI all’XI secolo il luogo divenne, spiritualmente e culturalmente, bizantino. La splendida cattedrale dei santi apostoli Pietro e Paolo che domina l’abitato, guardando verso occidente, rivela chiaramente, per la sua posizione e le linee architettoniche di stile orientale, una decisa e squisita fattura bizantina. E non solo: essa testimonia anche la profonda religiosità di quelle genti grecaniche così strettamente ancorate alla propria lingua e alle proprie tradizioni, religiosità in loro infusa anche dalla santa presenza dei monaci basiliani che, profughi dall’oriente, avevano eretto, nei dintorni, i loro monasteri. Poco più a nord della chiesa, quasi incastrato nella roccia, il castello... E la silenziosa preghiera della valle si spegne, di colpo, in un agghiacciato silenzio. Dal portale d’ingresso, che si apre attraverso le possenti mura, ai ruderi del sinistro carcere, fino alla porta superiore dove sorgevano, ormai non più identificabili, gli ambienti del maniero, si respira, tuttora, la cupa aria di una fosca tragedia: l’eccidio di un’intera famiglia signorile, quella dei nobili Alberti perpetrata, nella notte del 16 aprile 1686, da una masnada di mercenari albanesi al soldo di Bernardino Abenavoli, barone di Montebello Jonico, la cui proposta di matrimonio con Antonietta Alberti (con la quale intratteneva, da tempo, incontri segreti) era stata, dal di lei padre, respinta. Antonietta venne rapita e condotta in un convento dove morì di dolore nell’apprendere della strage di tutta la sua famiglia.
Un’avvincente vicenda di amore e di morte, quasi una favola oscura passata di bocca in bocca, nel corso dei secoli, tra gli abitanti del luogo che ancora ricordano, ancora raccontano... «C’era una volta, e c’è ancora, un piccolo paese ai piedi di una grande mano. Sopra il paese, in un castello, viveva una delicata fanciulla dai capelli d’oro e dal cuore ardente, ma non sapeva che l’amore può trasmutare in falco rapace anche il più dolce degli amanti. I suoi neri artigli hanno lacerato la sua casa e il suo cuore». Canta, cantastorie, la vicenda di una delicata fanciulla uccisa dall’amore.

Autore: 
Daniela Ferraro