Castiglione nero di Natile

Lun, 27/03/2017 - 19:49
I frutti dimenticati

Nell’estate di una decina di anni addietro lo scrivente ebbe l’incarico da parte della dottoressa Giuseppina Amodei, defunta da poco più di un anno, autrice di alcune raccolte di poesie e corresponsabile assieme al marito e al fratello dott. Francesco Amodei, della gestione dell’Istituto Internazionale di Restauro Palazzo Spinelli di Firenze, di guidare sul territorio l’amica sua, l’attrice Elisabetta Coraini alla ricerca di scorci paesaggistici particolari, caratterizzati da presenza di rocce, in quanto erano coinvolti assieme in un progetto editoriale, basato su fotografie in paesaggi selvaggi unite alle sue liriche. In tali scenari sarebbe stato ambientato il libro fotografico, Donna Fera, edito poi da Mondadori, dove ogni foto sarebbe stata preceduta da una poesia.
Furono scelti scorci nel comune di Gerace, in contrada Cao, altri nel comune di San Giovanni di Gerace e altri ancora in quello di Careri, dove furono visitate le Rocce e le Grotte di San Pietro, non molto distanti da Pietra Cappa, che offrirono scenari affascinanti per i loro obiettivi.
Qui, Elisabetta Coraini e suo marito per circa due ore scattarono foto e, dato che una leggera brezza rinfrescava la calura pomeridiana di metà agosto, stesero su un pianoro roccioso delle stuoie e si stesero sopra, mettendosi in costume da bagno .
I raggi tiepidi del sole li colpiva piacevolmente, mentre ammiravano serenamente il panorama circostante.
Lo scrivente gironzolava intorno alla grotta di S. Pietro, andando alla ricerca di esempi di ceramica datante, abbondante in quell’area, costituita da frammenti notevoli di embrici greci e forse di frammenti di ceramica protostorica, localizzati alla base di grotticelle.
Prima di arrivare al sito, sulla stradina in forte pendenza, ripulita dal calpestio delle capre in transito, discendente dalla sterrata ampia che porta al santuario di Polsi o deviando, verso il casello forestale di pietra Cappa, notò sulla sinistra una vite solitaria inerpicata su un leccio dai bei grappoli ormai invaiati, a forma piramidale, dagli acini perfettamente sferici non radi; più distanziati apparivano pochi ceppi di vite, retaggio di una vigna ormai scomparsa.
Desiderava chiedere notizie a qualcuno, ma appariva in lontananza solo qualche capra inerpicata su dirupi impossibili, per cui si rassegnò all’idea d’indagare sulla vite. A un certo punto si sentì qualche scampanellio e poi successivamente altri, che col passare di pochi minuti si trasformarono in un fragore assordante di campanacci, che s’indirizzava decisamente verso l’area della Roccia di S.Pietro .
Elisabetta e suo marito aspettavano felici e svestiti la mandria costituita unicamente da capre aspromontane dalle robuste corna, guidate da diabolici caproni dalle corna possenti.
Ad un certo punto al frastuono dei campanacci si aggiunsero i richiami urlati con voce potente da un pastore sull’ottantina, robusto, abbastanza alto, con i capelli neri ancora, o leggermente brizzolati, che brandendo a destra e a manca una scure dal lungo manico, avanzava verso la Roccia di San Pietro.
Lo spettacolo eccessivamente bucolico non piacque a Elisabetta e a suo marito che in un baleno si rivestirono e incrociando obbligatoriamente il pastore in un passo obbligato, lo salutarono fugacemente con un cenno della mano e poi risalirono velocemente la stradina verso la sterrata dove era parcheggiata l’auto che li avrebbe riportato verso la costa.
Lo scrivente, invece, incrociando il pastore, doverosamente l’informò sul perché erano venuti a visitare la Rocca di S. Pietro e facendo le dovute presentazioni seppe che si chiamava Sebastiano Codispoti, pastore da sempre e conoscitore di ogni anfratto del suo territorio.
Notò che in una tasca della sua giacca aveva un cucchiaio appena abbozzato in legno di erica e poi con una certa circospezione gli chiese notizie sulla vite inerpicata sul leccio e seppe che esso era denominato Castiglione e che proprio dove esso sopravviveva era stata impiantata una vigna poco dopo la seconda guerra mondiale, costituita oltre che dal Castiglione anche dalla malvasia bianca e nera, dalla guardavalle nera e bianca ecc.
Ormai le antiche viti che costituivano le vigne nel comune di Careri, non esistono più e sopravvivono stentatamente in qualche sparuta vigna marginale.
L’ultima vigna costituita da viti autoctone nel territorio di Natile, fu quella della famiglia Napoli impiantata nell’area gravitante verso Platì; era dotata prevalentemente di Castiglione Nero e, addirittura di quello bianco. 

Autore: 
Orlando Sculli e Antonino Sigilli
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