Dialetto calabrese: maneggiare con cura

Lun, 16/07/2018 - 12:20

Mi sono sempre lambiccato il cervello tentando di scoprire perché, mentre qualunque altro dialetto in Italia è riuscito ad assurgere a dignità letteraria, ad avere il riconoscimento di lingua, il nostro calabrese è ancora, col cappello in mano, sulla soglia della stanza dentro la quale questo riconoscimento viene  conferito. Ho subìto fin dai teneri anni dell'infanzia, prima, e della fanciullezza poi le reprimende delle buone suore all'asilo, i rimproveri e i ceffoni di genitori e maestra alle elementari, i quali pretendevano che io parlassi solo ed esclusivamente in Italiano perché il dialetto non era cosa buona e giusta.
Sarei stato quasi contento di sapere che di questa damnatio io fossi il destinatario esclusivo; e, invece, in quell'epoca di poco precedente alla trasmissione televisiva “Non è mai troppo tardi” del maestro Manzi che scardinò un analfabetismo diffuso quanto e più dei pidocchi, l'ostracismo in Calabria nei confronti del dialetto era un fatto diffusissimo che nasceva dalla necessità di ridurre il gap culturale tra la Regione al resto dell'Italia e - ma questo non lo ammetterà nessuno mai - dalla volontà della nuova borghesia urbana, effettiva utilizzatrice della nuova Scuola, di marcare una differenza rispetto al ceto meno abbiente.
Il risultato fu ed è che la Liguria può vantare le opere di Niccolò Bacigalupo e Ugo Palmerini, autori di commedie diventate famose per essere state portate in scena da Gilberto Govi (il primo, tra l'altro, autore finanche di una Eneide in dialetto genovese); la Romagna quelle di Tonino Guerra; il Veneto di Goldoni; il Lazio di Trilussa, Belli e Pasquino, la Campania di Scarpetta, Eduardo De Filippo, Salvatore Di Giacomo - per non parlare dei grandi autori di versi delle canzoni che tutto il mondo conosce e canta; la Sicilia di Vannantò e Ignazio Buttitta; mentre, in Calabria, gli stessi Calabresi niente sanno, o poco, di autori come Vittorio Butera o Domenico Piro, meglio conosciuto come Duonnu Pantu, omologo di Pietro l'Aretino, o di Gian Lorenzo Cardone, lucano o calabrese che fosse, autore del Te Deum de' Calabresi.
Per un'aggiunta di sale sulla ferita, dobbiamo il Dizionario Dialettale delle Tre Calabrie al tedesco Gerhard Rohlfs il quale non si vergognava di parlare il dialetto come e meglio dei Calabresi e che, si dice, sia morto con il nome della Calabria sulle labbra.
Tanto amore, ahimè, non sembra albergare, invece, nei nostri conterranei contemporanei a cominciare dai miei figli.
Ai quali non riesco a fare entrare in testa che dire “nci chiedìvi” è un reato grave dal momento che il verbo “chiedìri” è un neologismo orrendo creato da chi non sa che in dialetto calabrese esiste la vecchia distinzione latina tra  chiedere per sapere, “nci domandàvi”, e chiedere per avere, “nci cercàvi”. Ma veniamo al motivo per il quale tutta questa interminabile pippa.
Nel numero di Riviera della scorsa settimana la Brigantessa Serena Iannopollo, - mi perdonerà, spero, per la correzione che segue senza volere essere saccente - ha usato in maniera impropria l'espressione “chimmu vai pe' porti” attribuendole un significato che, sebbene serva alla causa che pèrora, tuttavia è fuorviante.
I “porti”, infatti, di cui si dice nella (h)jestìma citata dalla brava articolista -perché in presenza di una (h)jestìma, una maledizione, ci troviamo - non sono i luoghi di attracco e partenza delle navi ma le porte, gli usci, le entrate, gli ingressi delle case, per capirci.
E la scrittura esatta e completa è “chimmu vai p'e porti (per chiedere l'elemosina) e ogni porta 'na vastunàta”. Tradurre non serve.
Deduco, per il fatto che all'autrice non fosse noto quanto sopra scritto, la sua giovane età e ne sono invidioso.
Alla Brigantessa il mio apprezzamento e il consiglio di frequentare i Mammolesi che, da antichissima tradizione, in materia di anatemi sono liberi docenti.
Come si dice? Dùnanci l'arti a cu' la sapi fari.

Autore: 
Sergio M. Salomone
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