Downsizing Sud, la trasformazione totale e irreversibile del Mezzogiorno

Dom, 17/04/2016 - 16:22
Solo la ripresa di investimenti può configurarsi come una valida strategia per lo sviluppo del Sud, e di certo questi non possono limitarsi a ridicolaggini come la fibra ottica. Si dovrebbe rimettere in moto l’industria, e farlo anche molto alla svelta.

Stiamo vivendo la peggiore crisi economica dal Dopoguerra, i cui effetti, di durata pluridecennale, saranno per il Sud paragonabili a quelli della Grande Depressione del ’29. Da studi statistici effettuati da enti pubblici e associazioni come l’ISTAT, la SVIMEZ, IRPET, Banca d’Italia, ANCE e DPS-Conti Pubblici Territoriali, emerge chiaramente un quadro di un paese fortemente diviso e diseguale, dovuto non solo più a quelle che vengono chiamate “congiunture negative” (che spesso sono frutto di assestamenti o spostamenti degli assi del capitalismo trasnazionale), ma a parzialità, espressamente ricercata dal potere centrale, dell’organizzazione politica ed economica dell’Italia.
Quello che noi oggi possiamo vedere e toccare con mano è un impoverimento tale da sconvolgere il profilo economico del Sud in via definitiva. Il futuro che si disegna davanti a noi è una radicale alterazione dell’identità economica del Mezzogiorno, storicamente di carattere mediterraneo e gravitante verso l’Est, non già verso il Nord-Europa o verso le Americhe.
Al momento siamo in una fase di “equilibrio implosivo”, quindi una crescente perdita di produttività, minore occupazione, diminuzione della popolazione, fuga dei  giovani, in particolare di chi ha una professionalizzazione più elevata. Solo la ripresa di investimenti al Sud può configurarsi come una valida strategia per lo sviluppo, e di certo questi non possono limitarsi a ridicolaggini come la fibra ottica.
Non dimentichiamo il fallimento delle politiche di austerity, che hanno solo contribuito ad accrescere la differenza con le aree forti dell’Unione Europea. Inoltre il Sud non ha affatto beneficiato della breve “ripresa” del biennio 2010-2011, di cui ha invece goduto il centro-nord, cioè le regioni favorite dal federalismo fiscale ottenuto dalla Lega.
Il Sud subisce anche la forte concorrenza dei paesi che sono entrati nell’area Euro nel 2004 (Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Ungheria), paesi che godono di un regime fiscale meno gravoso e un minore costo del lavoro. Questo attrae molte società che esternalizzano i loro servizi cedendoli a paesi esteri (ecco perché alla Vodafone vi rispondono Vlad o Kaspar).
Nel 2013 l’occupazione è scesa per la prima volta al di sotto dei sei milioni di unità: una cifra così bassa che non era mai stata registrata dal 1977, cioè dalle prime statistiche ISTAT. Il lavoro giovanile e quello femminile ne soffrono maggiormente, quest’ultimo anche in termini di qualità e di precarietà, ma non va dimenticato che l’Italia è un paese che lascia metà della popolazione femminile al di fuori del mercato del lavoro.
Un altro problema è il forte disallineamento tra la domanda di lavoro, che privilegia le iperspecializzazioni, e l’offerta, che non sempre è neanche di medio livello.
Un punto cruciale in questo senso devono essere i Centri per l’Impiego e tutti gli strumenti possibili per il collocamento delle persone, attualmente lasciate in balia di siti web privati, più o meno affidabili.
Non secondaria deve essere la formazione dell’adulto, che tramite corsi pomeridiani può qualificarsi o riqualificarsi. Con il decreto Poletti, meglio noto come Jobs Act, è nata l’Agenzia Nazionale per l’Occupazione, sulla quale già gravano sospetti di essere uno strumento per amministrare il potere del datore di lavoro e costringere all’accettazione di qualsiasi condizione nel passaggio da una posizione all’altra.
Il Meridione che si impoverisce (una famiglia su tre è a rischio povertà assoluta), si svuota, sul quale c’è una politica nazionale scientificamente mirata al downsizing degli investimenti, ha fatto persino ventilare l’ipotesi dell’uscita dell’intero Mezzogiorno dalla UE (cosa che per la verità sarebbe auspicabile).
Come primo input economico occorrerebbe consentire alle piccole e piccolissime imprese di rafforzarsi, specie nei confronti del mercato estero. Sono queste, infatti, che rispetto al crollo degli acquisti nazionali e locali, hanno registrato maggiori successi investendo sull’esportazione all’estero. Questo tipo di politica economica ha permesso alla Puglia di intrecciare fitti dialoghi commerciali con il Giappone.
Tuttavia l’Italia continua a ridurre i finanziamenti al Sud e tagliarlo sempre più fuori dai piani di investimento. Si dovrebbe invece rimettere l’industria al centro di una nuova strategia di sviluppo, e farlo anche molto alla svelta. Non concentrarsi su interventi di contesto, localizzati, che possono essere solo di supporto ad una vera politica di sostegno diretto che privilegi misure attive e fortemente selettive in grado di operare una seria programmazione di settori e filiere. 
Non basta sperare in una crescita generale che consenta al Sud di “rifiatare”, e certamente non basteranno i 21 miliardi previsti dal piano Junker a fronte dei 315 promessi. A meno che Renzi non impari a far di conto, e miracolosamente anche a moltiplicare pane, pesci e miliardi (oltre ad addizionare asini).
In breve, occorre riprendere il processo di industrializzazione del Sud, interrotto con l’Unità d’Italia.

Autore: 
Lidia Zitara
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