Emergenze sanitarie: serve una “vision”…

Dom, 15/11/2020 - 10:30

Sicuramente ognuno di noi ha una sua idea della salute, di come vorrebbe che venisse tutelata, su cosa e chi potrebbe contare nel caso in cui dovesse avere necessità di essere curato. L’emergenza fa parte della vita, è quell’imprevisto che incombe sul nostro quotidiano e che, per meglio affrontarlo, si apprestano piani: come in guerra, così in pace. Previsione, pianificazione, organizzazione delle risorse e condotta richiedono da sempre una grande capacità di astrazione del pericolo possibile, seppur supportato da indicatori che lo rendono probabile anche se non immanente e/o imminente, e questo non è un gioco di parole. Nei corsi di Stato Maggiore delle Forze Armate e dei Carabinieri, all’Ufficiale che procede ad assumere gradi superiori vengono date, o dovrebbero essere offerte, cognizioni e strumenti per risolvere problemi complessi, siano essi derivanti dall’impiego di uomini in campi di battaglia o nelle attività di polizia, o in settori di gestione del personale e dell’impiego nelle diverse occasioni. Tuttavia, mi preme ricordare al lettore, che è estraneo a questo mondo, che le capacità di previsione e organizzazione dovrebbero rappresentare una precondizione per giungere ai massimi vertici del management, e che si tratti di militari o meno non è importante. Infatti, ciò che presiede alla formazione è la capacità di risoluzione di problemi complessi. Cioè, l’acquisire un metodo di lavoro e padronanza di processi di analisi che dovrebbero permettere, data lo loro applicabilità concettuale in tutte le realtà che presentano una loro complessità, di poter agire con risolutezza e giusta previsione nella gestione del quotidiano, dell’emergenza e dell’imprevisto. Carl von Clausewitz, che non fu certo l’ultimo acquisto di una nuova filosofia di impiego delle forze, soleva dire che i piani militari che non prevedono l’imprevisto sono destinati al disastro. Ciò significa che coloro che hanno la responsabilità di concepire, organizzare e condurre (leggasi anche “gestire”) operazioni (leggasi emergenze) complesse non possono non tener conto delle situazioni di eccezionalità o di non regolarità possibili. Tutto questo, insomma, per dire che chiunque con la formazione dell’ex commissario, in termini potenziali, doveva essere in possesso di tutti gli strumenti concettuali e di esperienza per poter prevedere, pianificare e condurre (ovvero gestire) una manovra, di qualunque tipo essa fosse. Una manovra, o un concetto di azione, che è quanto si chiede a tale livello. Un piano d’azione che doveva essere costruito su una visione strategica del campo di confronto, elaborando modalità di azione da affidare, subito dopo, per l’esecuzione ai tecnici cui andavano indicati gli obiettivi da conseguire sul piano tattico. Obiettivi, che devono essere parte essenziale, per raggiungere nel loro insieme il risultato strategico: la vittoria. Ovvero, la messa in sicurezza di una comunità sino al ritorno a condizioni di normalità. Capisco le gelosie dei presunti tecnici (molti dei quali, negli anni, non si sono visti in giro a raccogliere successi). Ma è ormai sotto gli occhi di chi vuol vedere, che in Calabria era necessario disporre, normalmente, di un Piano sanitario regionale che partisse proprio dal ridisegnare l’emergenza considerata, questa, l’obiettivo fondamentale da perseguire. Un obiettivo, sul quale costruire, poi, tutta l’architettura dell’offerta di ospedalizzazione e di ridistribuzione di reparti e posti letto evitando duplicazioni, e indirizzando gli sforzi nel garantire livelli progressivi di intervento. Per fare questo, però, ci vuole conoscenza del territorio - percorrenze, valutazioni delle distanze, possibilità logistiche sulle quali poter contare - dell’utenza, della qualità delle risorse umane e delle infrastrutture. Non solo. Ci vuole una buona dose di astrazione per mettersi nei panni dell’utente più remoto e più fragile e porsi la domanda di cosa avrebbe bisogno, di quale risposta esso si aspetta quando in gioco c’è la salute, la vita propria o quella dei propri cari. Avevo proposto negli anni la possibilità/necessità di prendere a modello le Medicine d’urgenza (non quelle di corsia). Strutture complesse intermedie, con capacità chirurgiche al cui interno far gravitare il Pronto Soccorso e/o Dea e il 118, idonee ad affrontare una emergenzialità che non sarà mai avulsa, purtroppo, dalla quotidianità (si pensi al paziente con un infarto in corso o a un coma diabetico). Una struttura, Medicina d’Urgenza, che nella rapidità di intervento e trattamento evita una ospedalizzazione tardiva che potrebbe rivelarsi fatale. È evidente, però, che ciò significherebbe rivedere la distribuzione di alcuni complessi ospedalieri, alcuni dei quali esprimono capacità da Pronto Soccorso non adeguate. Ma se questo riguarda l’emergenza quotidiana (sembra quasi un ossimoro), anche l’emergenza dovuta all’imprevedibile, quale quella del Sars-CoV2 non dovrebbe sfuggire da una riflessione di previsione e di gestione complessiva. In questo caso, ogni piano doveva essere elaborato in maniera tale da prevedere come e in che termini si sarebbe dovuto intervenire, con quali mezzi, facendo affidamento su quali infrastrutture disponibili o su altre reperibili (o requisibili) e con quale personale disponibile (o precettabile). Perché la necessità di un piano è l’essenza stessa della gestione dell’imprevisto. Per questo, se si ha a disposizione anche un minimo quadro di azione, quando l’imprevisto si manifesta si può comunque partire da una pianificazione emergenziale minima, magari elaborata per altre esigenze, ma adattabile alle circostanze, adeguandola in corso d’opera. In questo caso, se il problema era, e sembra esserlo ancora, il contenimento e la messa in sicurezza delle persone più a rischio, si sarebbe dovuto fare un calcolo complessivo delle disponibilità (e vorrei credere che la situazione fosse chiara) valutando non solo le possibilità offerte dalla sanità pubblica, ma anche da quella privata, precettandone il personale e le relative strutture. E questo, perché nel campo delle emergenze, anche la distinzione tra pubblico o privato non ha più senso, essendo prevalente l’interesse pubblico: se “pecunia non olet” anche “salus non olet”. Ciò avrebbe permesso non solo di poter disporre di ulteriori posti letto e personale, ma avrebbe anche portato all’attenzione del contribuente calabrese come, e in che termini, sia ancora possibile pensare che strutture private convenzionate con capacità chirurgiche non offrano una gestione dell’emergenza e una capacità post-operatoria, perché prive di terapie intensive e di rianimazioni che dovrebbero essere fatte ricadere nei requisiti minimi di esercizio. Insomma, concludendo, Covid o non Covid, tecnici o non tecnici, nel successo come nella sconfitta, la differenza è data solo, usando termini cari a chi ha frequentato le scuole alte, dalla cosiddetta Vision. O ce l’hai o non ce l’hai… Peccato che se non ce l’hai, e non mi pare ci sia, il prezzo da pagare può essere molto oneroso!

Autore: 
Giuseppe Romeo
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