Il 1 cantante della 'ndrangheta

Mar, 23/02/2021 - 20:00

“Adesso sta diventando ridicola questa accusa di infamità, perché io non sono tanto cretino da collaborare, raccontando delle menzogne, delle falsità. Se avessi affermato cose non vere, non potevano mai reggere e io mi sarei giocato la vita inutilmente”. Parole di Pino Scriva, primo pentito di ’ndrangheta, a cavallo tra gli anni 1983 e 1984. Rilasciò al Pubblico Ministero e al Giudice Istruttore di Palmi lunghe e articolate dichiarazioni, fornendo una minuziosa descrizione della ’ndrangheta, da lui definita “setta segreta a struttura gerarchica con riti e regole particolari da rispettare”, radicata in Calabria e “suddivisa per territorio e precisamente per Comune”, con estesi collegamenti in tutto il territorio nazionale e all'estero. Giuseppe Scriva diventava così il primo pentito di ’ndrangheta, che permise di penetrare nell’universo mafioso, passando per la porta principale. Così la ’ndrangheta fu “spiegata” da un suo esponente che, tra l’altro, ricopriva un ruolo prestigioso all’interno dell’organizzazione. Consentì di ripercorrere, in maniera piena ed efficace, un periodo fondamentale della lotta alla ’ndrangheta, rivelando anche collusioni politiche importanti. Diceva: “La ’ndrangheta è un'associazione criminosa che si prefigge come finalità un programma indeterminato di delitti. Essa vive e opera come alternativa allo Stato. Le regole che la governano e che devono essere perfettamente conosciute da coloro che ne fanno parte, uniformi per tutta la 'ndrangheta, sono in netta antitesi con le leggi dello Stato.” Tra le regole fondamentali: “l'obbligo tassativo di dar ricetto ai latitanti; il divieto assoluto di testimoniare contro l'imputato; l'obbligo di non costituirsi parte civile; l'obbligo di vendicare le offese ricevute, uccidendo eventualmente l'offensore, senza ricorrere all'autorità giudiziaria; l'obbligo di uccidere la moglie, la sorella e la cognata nell’ipotesi di infedeltà coniugale; l'obbligo di vivere di sgarro, cioè imponendo mazzette, guardianie abusive e altro”. Scriva non esitò a fornire, Comune dopo Comune, i nomi dei capi e dei singoli affiliati alle diverse famiglie, dando una rappresentazione estremamente realistica di una vasta associazione criminale che, seppure articolata in diverse cosche territorialmente autonome, operava in perfetta sintonia, formando una sorta di “federazione”, quando si trattava di perseguire importanti strategie delinquenziali di interesse comune. Parlò della strage di Razzà (dove in un conflitto a fuoco morirono due Carabinieri – che avevano interrotto un summit - e due ‘ndranghetisti), dell’omicidio del Giudice Francesco Ferlaino, della compartecipazione alle riunioni di mafia del Senatore Antonino Murmura (poi assolto dalle accuse), in un periodo in cui era impensabile qualsiasi forma di pentimento o dissociazione, rivelando, con lucida determinazione, origini, natura, struttura, usi e finalità della 'ndrangheta. Per la prima volta, almeno in Calabria, si acquisiva prova diretta dell'esistenza della mafia e poteva così accertarsi l'esistenza pluridecennale, sul territorio della Piana di Gioia Tauro e altrove, di consorterie criminali associate, dedite a ogni tipo di attività e traffici illeciti. Le rivelazioni di Scriva avevano fornito una mappa puntuale e completa delle cosche mafiose operanti a Reggio Calabria, Vibo Valentia, chiarito i retroscena della faida di Cittanova tra le famiglie Raso-AlbaneseGullace e Facchineri e della faida di Taurianova tra i Monteleone e i M a r t i n o - Avignone. Aveva permesso di accertare l’operatività della cosca di Rizziconi, della c o s c a M a m m o l i t i - Rugolo di Castellace, con specificazione delle massime cariche ricoperte da Saverio Mammoliti e Domenico Ruga e la grande influenza nella Piana di Gioia Tauro del clan Pesce di Rosarno. G i u s e p p e Piromalli era stato indicato come il capo più potente e autorevole della cosca mafiosa operante nella Piana di Gioia Tauro. Il processo, avviato dalle dichiarazioni di Scriva, presso il tribunale di Palmi, produsse una sentenza monumentale, estremamente articolata, in cui nulla era stato trascurato, appagando appieno l’ansia di verità e di giustizia della società civile. Ricostruiti gli agghiaccianti delitti attraverso l’attento esame della genesi, della natura dei crimini commessi e delle fosche personalità dei protagonisti. Non uno, uno solo fra le vittime - ed erano tanti - ritenne, non solo di costituirsi parte civile, ma di richiedere un atto di giustizia per il padre, figlio, fratello, congiunto; non uno aveva inteso collaborare per la memoria, il ricordo, del familiare ucciso. Era l’omertà che teneva le bocche cucite e sigillate dalla paura. Era il terrore di infrangere le ferree regole mafiose, di potere essere sterminati assieme ai propri congiunti, di divenire oggetto di terribili rappresaglie. E in molti, legati da vincoli di parentela a spietati criminali, in osservanza delle leggi mafiose, meditarono la vendetta da esercitare con le loro stesse mani. Nessun Ente pubblico - Regione, P r o v i n c i a , Comune - tra i tanti interessati, aveva ritenuto di dover partecipare al contrasto alla ‘ n d r a n g h e t a , facendo così emergere il netto scollamento tra il Paese ideale e il Paese reale, che continuava a distinguersi per l’assoluta indifferenza verso la feroce violenza criminale e il costante disimpegno verso i doveri civici. Nella Locride il primo vero pentito fu F r a n c e s c o Strangio da San Luca che rivelò tutte le vicende del sequestro di Tullio Fattorusso, cui aveva partecipato, consentendo la condanna di personaggi di grossa levatura. Gli stessi mafiosi si erano resi conto che il pilastro inviolabile dell’omertà che li proteggeva rischiava di vacillare, di sgretolarsi. Perciò, quando sentirono rumore di frana, preferirono porsi disperatamente ai ripari, scatenando un feroce attacco, un’offensiva rabbiosa e selvaggia contro i dissociati. Non fu un caso, infatti, un incremento degli omicidi, molti dei quali rientrano nel novero della virulenta reazione contro il pentitismo, risoltasi con l’assassinio dei collaboratori di giustizia e con le agghiaccianti vendette trasversali senza risparmiare nemmeno i bambini. Esemplare fu il caso di quel periodo di Leonardo Vitale, considerato il primo collaboratore di giustizia, dopo Melchiorre Allegra, che nel 1937 descrisse l’organizzazione criminale. Vitale era un picciotto della mafia siciliana che rese dichiarazioni sui crimini e misfatti compiuti dai mafiosi di Palermo: Salvatore Riina, Giuseppe Calò, Vito Ciancimino ed altri. Non fu creduto e, ritenuto un pazzo paranoico, venne ricoverato nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto perché dichiarato seminfermo di mente. Pochi giorni dopo la sua dimissione, Leonardo fu barbaramente ucciso. A distanza di tempo, a seguito delle dichiarazione di Tommaso Buscetta, alla luce delle ulteriori indagini eseguite, suffragate da inequivocabili riscontri oggettivi, si accertò che Leonardo aveva detto la verità. Scriva sapeva bene che la sentenza di morte nei suoi confronti era stata pronunciata. Una condanna, s’intende, che poteva anche non essere eseguita a caldo, ma doveva, in ogni caso, alla prima occasione propizia, essere eseguita. In Calabria vi fu una ferocia inaudita, quella scatenata da guerre e faide, che non risparmiò neppure i bambini. Il Corriere della Sera dell’epoca così titolava: “Fuga senza fine di un bimbo scampato alla faida che ne distrusse la famiglia”. Si trattò di un bimbo di undici anni costretto a vivere sotto falso nome in una comunità per sottrarsi a un destino atroce, quello toccato alla sua famiglia. Quando il padre fu ucciso, mancavano tre mesi alla sua nascita, trentasei persone appartenenti alla sua famiglia erano state eliminate prima del suo allontanamento. Si leggeva nel servizio del quotidiano: “Non faremo il nome che ha assunto, né sveleremo dove si trova. Possiamo dire che per il piccolo la paura è qualcosa di ineluttabile, come l’aria da respirare. Il maestro della scuola fu il primo ad accorgersi che, tra i bambini dell’asilo, si nascondeva sotto il banco terrorizzato ogni volta che si apriva la porta. Aveva paura di ogni gesto, di ogni parola. Il piccolo è stato portato al nord, di notte, dai Carabinieri quando aveva quattro anni e, come si disse, destinato a vivere in una comunità sotto falso nome”. Una storia di terrore, superata da un’altra ancora più agghiacciante: lo spietato assassinio di due bambini, i fratelli Domenico e Michele Facchineri, di soli nove e dodici anni, uccisi a colpi di lupara e di mitra. Fu in tale contesto che Scriva violò la ferrea legge dell’omertà, come mai si era verificato in Calabria, e permise di sferrare un attacco frontale alla ’ndrangheta: aveva parlato, riferito, denunciato, passando dai singoli episodi criminosi alla struttura dell’apparato mafioso calabrese colluso con la politica dei “colletti bianchi”. 

Autore: 
Cosimo Sframeli
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