La prima volta che vidi un Sindaco

Dom, 15/01/2017 - 09:38
Proponiamo di seguito un ricordo di Cosimo Iannopollo, storico sindaco di Siderno che per più di vent’anni, con il sostegno di socialisti e comunisti, contribuì alla crescita del suo Comune.

Alle amministrative dell’anno millenovecentosettantacinque fui eletto consigliere comunale nelle liste del Partito Comunista Italiano, e alla prima riunione del consiglio rividi un signore, che avevo visto per la prima volta alla fine degli anni cinquanta. Era Cosimo Iannopollo, per tanti anni Sindaco di Siderno. Ritornai con la mente ai miei ricordi e mi rividi ragazzino, una sera di un mite pomeriggio sidernese. Ricostruii tutto l’evento mettendo ordine agli scampoli d’immagini ed ebbi un fremito di emozioni, che turbarono non poco la mia prima giornata quale rappresentante del popolo sidernese. Credo di essere stato assente con la mente quella sera, che mi vedeva seduto fisicamente ma immerso in quella giornata di tanti anni prima. E mi vidi mentre tornavo da scuola con la mia cartella di cartone, il mio grembiule nero e l’ampio fiocco azzurro sotto il bianco girocollo. Frequentavo in quegli anni la scuola elementare di Donisi, quella costruita dal Servizio Civile Internazionale e che in quel decennio ha visto passare la gioventù di quelle vaste contrade, prima di prendere la via dell’emigrazione. L’edificio, benché ubicato nel centro della contrada, era immerso e circondato da ampi prati verdi, pieni di frutti e di ortaggi. Non c’era, in quegli anni, niente di abbandonato e ogni angolo di terra era utilizzato dal proprietario e nelle vicinanze della scuola potevi trovare di tutto. Quasi di fronte alla stessa vi era una casa signorile, abitata da gente che si faceva viva solo in alcuni periodi dell’anno ma tenuta con cura dai suoi contadini. La villa era immersa nel giardino, dal quale era possibile scorgere la variegata quantità di fiori e inebriarsi del loro intenso profumo, perché sempre rigogliosi anche durante il cambio di stagione. Ritorna nella mia mente l’odore intenso del gelsomino giallo e la vastità delle rose, che rubavamo per la nostra maestra, e le pere, le mele, che venivano coltivate dentro queste grandi aree, circondate quasi a mo’ di un decoroso nascondiglio, dai fiori e dagli ornamenti vari. Ancora più sotto un vasto agrumeto dove trovavi di tutto: arance, clementine, limoni e limoncello, oggi quasi scomparso benché sia un albero di grande pregio e di notevoli particolarità gastronomiche. Un grande impianto d’irrigazione attingeva a un profondo pozzo e funzionava con la forza del traino paziente di un asino. In quel campo trovavi ogni ben di ortaggio, dai cavoli ai finocchi, dalle lattughe, ai pomodori, dalle cipolle alle patate. Insomma trovavi la vita d’intere famiglie, perché gran parte del raccolto era destinata al mercato cittadino o venduta direttamente sul posto. Proprio a ridosso di questo giardino era il ponte, costruito anni prima sempre dal servizio civile internazionale, struttura che abbatté definitivamente l’isolamento di Donisi che, durante l’inverno, doveva ingegnarsi, per attraversare il torrente San Filippo, con una rudimentale passarella in legno. Mi appoggiavo al parapetto del ponte e a mala pena riuscivo a stendere il capo sopra il muretto per guardare l’asino nel suo interminabile girare e ammirare l’acqua spruzzata a intermittenza regolare da un tubo indirizzato a riempire un’enorme vasca, dalla quale partivano diversi canali, fatti da mano esperta, con solchi di terra funzionali a distribuire il prezioso liquido sulla totale superficie coltivata. Appena più sotto, una distesa di gelsomini lungo filari di limoni intervallati da alberi di ulivo: era una florida azienda dedita alla produzione di questi importanti e pregiati fiori, che per secoli hanno reso florida la Calabria intera. Centinaia di alberi di bergamotto rappresentavano altresì una speciale ricchezza per il proprietario di queste terre che non viveva nella nostra città, bensì nella capitale d’Italia. Centinaia di donne e decine di uomini trovavano lavoro in quest’azienda; lavoro duro, che poteva dischiudere prospettive di sviluppo ed invece, sul finire degli anni settanta la desolazione avvolse l’intera area e quel profumo che caratterizzava quei luoghi, e che raccontava di futuro, scomparve e la gente ha visto svanire anche quel sogno. Sentivo parlare le donne quando si riunivano, e ciò capitava spesso, e l’incontro avveniva dai miei nonni o anche a casa mia; sentivo raccontare delle promesse di realizzare fabbriche di profumo e di lavoro per tutte, perché la qualità del gelsomino era tale che lo rendeva unico nella sua tipicità. Svanirono quei sogni e di quei tempi rimane il ricordo di quelle schiere vocianti di donne, che nel buio della notte si dirigevano verso quel posto profumato per raccogliere il bianco fiore. La raccolta doveva avvenire prima che nascesse il sole, perché i raggi caldi avrebbero quasi distrutto la genuinità del prodotto e pertanto generalmente alle otto del mattino, già tutte le raccoglitrici avevano svuotato il loro sacco che tenevano appeso alla cinta, con la bocca aperta all’insù perché mani veloci lo riempissero in appena due tre ore di rapido e abile stacco dalla pianta di quel pregiato prodotto. In media due chilogrammi di raccolto, ma c’era anche chi ne raccoglieva quattro. Comunque riuscivano a portare un aiuto alla propria famiglia e ad assicurarsi un contributo per la pensione. La strada, che facevo ogni giorno per andare a scuola, d’inverno era un vero torrente e d’estate, a causa del continuo camminare di animali e abitanti, diveniva un’ottima pista per organizzare una gara particolare, quella del formaggio, oppure, come avveniva spesso, sfrecciavamo, noi ragazzi, spingendo un cerchione di bicicletta liberato dalla raggiera, servendoci di un asta di comando fatta di un tronchetto di ramo di ulivo dello spessore di un centimetro di diametro, che avevamo ben pulito dalle imperfezioni e ben levigato. Quella del formaggio vedeva impegnati, invece, i grandi durante qualche bella giornata di primavera o verso il finire dell’estate. Tanti erano i concorrenti e si capiva che bisognava essere abili nel lancio, se non si voleva essere destinati alla sconfitta sicura. Alcuni erano talmente abili che riuscivano con un lancio a far fare alla ruota di formaggio ben stagionato, anche due curve della strada. L’abilità stava appunto nella capacità di superare le curve con il minor numero di lanci possibili e chi arrivava prima al traguardo, si portava a casa quella “Pezzotta” di formaggio che, per il tempo di cui si parla, poteva essere considerata una vincita di buon rispetto. Anche gli spettatori, generalmente noi ragazzi e chi magari non lavorava, dovevano avere l’accortezza a posizionarsi in luoghi sicuri, e per questo si faceva a gara per chi occupava la postazione con una più vasta visione per potersi sentire partecipi alla competizione. Lungo quella strada, ancora priva del tocco della modernità, non solo si camminava ma si faceva qualsiasi attività che interessasse più persone. Pertanto il ritorno da scuola o anche l’andata la mattina, poteva sortire sorprese tali da attirare l’attenzione di un curiosone come me. Se la sera durante le riunioni attorno al braciere, il racconto diceva di “magarie” e di iettatore, la mattina seguente, non di rado, si dava attenzione a quello che c’era dentro una tegola scorta lungo la strada. Si diceva, infatti, che, se dentro la tegola ci fosse qualcosa di bruciacchiato, o completamente bruciato, era il segno che qualcuno stava scacciando da lui il malocchio ed il primo ad incontrarlo avrebbe dovuto vedersela con la malasorte. Fin troppe sono state le volte che mi sono imbattuto in questo simbolo di atavici segni e mai mi sono fermato per far passare qualche altro, come prescriveva la vecchia e credula usanza. Attraversavo “il segno del demonio” e quasi a mo’ di vanto sfoggiavo il coraggio della noncuranza e della libertà di essere poco incline a tali credenze. Rare erano le volte che arrivavo a casa in orario compatibile con l’uscita della scuola e di solito ero attratto da accadimenti lungo il tragitto di ritorno che avveniva percorrendo questa strada oggi, denominata via Toronto. Il bidello della scuola suonava la campanella, utilizzando proprio una campana che muoveva velocemente a mano e poi, dopo qualche anno, una campana appesa al soffitto del corridoio della scuola con una cordicella penzolone, che abilmente muoveva per diffondere il suono che ci chiamava ad entrare o ci avvertiva di uscire. Quando si entrava in classe, ci ponevamo nei nostri banchi, in attesa che il maestro arrivasse in aula dopo aver preso il caffè, diligentemente preparato dal bidello, e incominciasse la sua lezione, che partiva, spesso con l’abile tentativo di creare l’atmosfera adatta al coinvolgimento della scolaresca. Ricordo con tanta simpatia quel grande maestro, che ha saputo rendere i suoi insegnamenti efficaci e con risultati sorprendenti per quegli anni, se è vero che la maggior parte di quei ragazzi ha conseguito o il diploma secondario o la laurea. La scuola, costruita da poco, era ancora orgoglio di tutta la popolazione, che appellava questo plesso” la scuola nuova”. Era una gioia vivere quegli anni d’intensa formazione a ridosso della liberazione del Paese dalla dittatura fascista e sulla strada della costruzione di un sistema democratico. Persino noi bambini, eravamo portati ad ascoltare frammenti di travagli sociali. In famiglia come a scuola. Quasi tutti i maestri erano schierati politicamente, chi con la DC chi con la Sinistra, e li sentivamo discutere, a volte anche animatamente, e senza capire molto ci schieravamo col nostro maestro, solo per spirito di “classe”. Fu in una di quelle animate discussioni tra maestri, che udì per la prima volta la parola “Sindaco”. Ricordo che mi rimase talmente impressa, che appena arrivai a casa, chiesi che cosa significasse e nessuno dei miei familiari mi seppe dare una spiegazione più convincente del fatto che “era uno sopra al comune, persona importante se hai bisogno di qualche certificato”. Quella mia interrogazione non aveva colto di sorpresa i miei, però, perché erano a conoscenza della visita del Sindaco, che ci sarebbe stata proprio quel giorno. Sul calare della sera, di un fresco pomeriggio di aprile, i preparativi per accogliere il Sindaco di Siderno avevano preso d’impegno l’intera comunità e soprattutto gli uomini già discutevano dell’incontro che avrebbero avuto, e li sentivo parlare di acqua, di corrente elettrica e di come migliorare la vita nei campi. Se di corrente elettrica non avevo nemmeno la pallida idea di che cosa fosse, mi sembrava molto strano, invece, che si dovesse parlare degli altri due argomenti. L’acqua, è vero che era un continuo litigare tra i miei zii per chi dovesse andare a prenderla con l’asino, attingendo a un pozzo che si trovava quasi vicino la spiaggia a ridosso della strada nazionale, ma di acqua ce n’era a quantità. Quello dell’approvvigionamento era sempre un’avventura e una litigata per chi doveva provvedere. Si andava con l’asino e tante volte mi è capitato di andarci io. Avevo con quest’animale un rapporto di affetto e di “vera amicizia”. Lo cavalcavo a trotto e a volte anche in piedi riuscivo a farmi gran parte del tragitto. All’andata, con i barili vuoti, si andava veloci e appena arrivati si aspettava il nostro turno prima di riempirli tirando, secchio dopo secchio, l’acqua da una profondità di almeno trenta metri. Appena tirato l’ultimo secchio, ero sfinito e cercavo un sospirato sollievo, ma ero ben intenzionato a ritornare subito a casa per incominciare i compiti di scuola. Forse non avevo nemmeno finito di mettere ordine in questi buoni propositi che, arrivato all’altezza di un vasto campo pianeggiante e con alberi alquanto radi da poter consentire sgroppate dietro un pallone, il più delle volte rudimentale, mi bloccavo con la ferma intenzione di tirare solo qualche calcio. L’asino lì fermo, sotto il pesante carico non resisteva molto e piano piano s’incamminava solo verso casa. Sudato e malconcio per i graffi provocati dalle zolle o dai resti della trebbiatura, mi accorgevo che l’animale non c’era più, e moscio mi avvicinavo anch’io verso casa, certo della giusta ramanzina che mi aspettava. L’asino era già da un pezzo a casa e qualcuno lo aveva liberato dai barili e il più delle volte io scampavo al rimbrotto infilandomi subito un libro tra le mani, gesto in grado di bloccare chiunque avesse avuto cattive intenzioni. Era un’acqua ottima, fresca e di qualità, a detta di tutti, e tranne la litigata per la fornitura, non capivo cosa potesse interessare a uno che faceva i certificati necessari per andare in Canada o per iscriversi a scuola. Inoltre, la vita nei campi mi sembrava il massimo della felicità e quindi anche per questo mi rodeva la curiosità di apprendere di questi miglioramenti. La riunione si svolse nell’ampio spiazzo di fronte alla bottega di vino e tanti erano arrivati per l’occasione. Non ricordo esattamente se si trattasse di qualche ricorrenza elettorale, ma sta di fatto che la partecipazione fu massiccia ed io mi sono intrufolato tra gli astanti ad ascoltare il discutere e quello che ebbe a dire questo signore, che tutti trattavano con deferenza, cui tutti avevano da porgere un problema. Non era venuto da solo e un codazzo di altre persone lo accompagnava e solo qualcuno di loro prendeva la parola. La presentazione breve, riferendo il titolo del personaggio ed i ringraziamenti per la visita, fu fatta da un anziano signore del posto che vagamente ricordo. Questo signore alto, austero, dopo frasi a me incomprensibili perché parlavano di società e di cambiamenti e di cose che avevo sentito dalla bocca dei contadini e dei braccianti, iniziò anch’egli a parlare di acqua, di corrente elettrica. Disse che avrebbe portato lui l’acqua, e la cosa, prima che me la spiegasse mio nonno, credevo fosse per mettere pace tra i miei zii; disse che presto avremmo buttato il lume a olio perché ci avrebbe illuminato le case a giorno, con la corrente elettrica, che il buon saggio di mio nonno mi spiegò cosa fosse. In quegli anni cinquanta, ancora le case di quelle realtà, facevano uso del lume il più delle volte alimentato a olio o, quelli più efficienti, a petrolio. Era quasi consono al calore familiare di quei tempi e l’atmosfera notturna si presentava alquanto raccolta, come se la vita dovesse essere confinata nel recinto di quella casa. Ricordo che da una stanza a un’altra si doveva andare aiutati da questo lume che riusciva a squarciare il buio, riempiendo la stanza di un volteggiare di ombre, che comunque non c’impedivano di destreggiare con estrema padronanza questi spazi, così pieni di noi. (le nostre abitazioni potevano avere massimo due o tre stanze: quella dei miei nonni era più grande e si sviluppava su due piani, d'altronde la famiglia era composta da dieci figli, oltre i genitori e, man mano, tanti nipoti) Disse tante cose a me sconosciute ed incomprensibili e dopo un lungo applaudire di tutti, bevvero vino e mangiammo pane e salame. Ci salutò il Sindaco. Dopo qualche mese vedemmo arrivare gli operai, nella vicinanza di casa di mio nonno, che incominciarono i lavori per realizzare un grande serbatoio che si reggeva su quattro pilastri e una schiera di altri operai a scassare la strada, luogo dei tanti giochi, per alloggiare il tubo della condotta idrica che avrebbe dovuto alimentare il serbatoio e servire una fontana dove la cittadinanza sarebbe andata ad attingere l’acqua. Lunghe e interminabili code occorrevano prima di riempire i diversi recipienti che ognuno portava con sé, ma non si andava più con l’asino con i barili per l’acqua. Avevo ricollegato questo precario servizio con quella riunione cui l’anno prima partecipai, benché ancora ragazzino e quasi di nascosto. E un giorno vidi arrivare una squadra di operai, che incominciarono a fare i fori nel suolo per immettere dei pali e tra questi stendere delle corde metalliche che avrebbero modernizzato la nostra contrada. Tutti attendevano con gioia l’arrivo della luce, come se appunto un nuovo giorno dovesse iniziare da lì a poco, e un nuovo modo di vivere dovesse prendere il sopravvento. In parte fu subito così e ci fu una corsa, per molti versi irrazionale, a liberarsi di alcuni segni di quel presente per renderlo subito passato. Il primo oggetto a essere immolato fu il lume e a casa mia, inconsapevolmente, fu distrutto un pezzo che i miei ricordi me lo presentano ancora come veramente unico e bello. Un lume, che mio padre aveva comprato a Napoli, che certamente sarebbe divenuto un pezzo d’antiquariato. Ma allora poco valore si attribuiva alle cose che datavano epoche e tempi di cui alcuni si volevano facilmente liberare. Lo stupore venne una sera quando ci accorgemmo che era molto più facile leggere e studiare rispetto a prima. Ma vedemmo arrivare la prima stufa elettrica l’anno successivo e vedemmo ridursi anche, anno dopo anno, la propensione a preparare il braciere, e tante altre modifiche del costume, presero il sopravvento, benché non sempre siano state un passo in avanti, quanto meno sotto il profilo del calore umano che da queste l’uomo, come soggetto sociale, deve o dovrebbe trarre.
Mentre il consiglio comunale stancamente continuava, io rividi accendere la prima volta la lampadina nella stanza di casa mia e mi ridestai da quel sogno, che non so dire se fosse solo di ricordi e non invece di reminiscenze piene di nostalgia. Il sindaco Cosimo Iannopollo intanto aveva terminato il suo lungo intervento aprendo il dibattito della prima seduta del consiglio comunale di Siderno della tornata elettorale del giugno dell’anno 1975. 

Autore: 
Domenico Panetta
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