Le massime di esperienza

Lun, 16/07/2018 - 16:20
Giudiziaria

Le massime di esperienza sono enunciazioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, (relativamente) indipendenti dal caso concreto sul quale il giudice è chiamato a decidere, acquisiti con l'esperienza, ma autonomi rispetto ai singoli casi dalla cui osservazione sono dedotti ed oltre i quali devono valere per nuovi casi; tali massime sono utilizzabili come criterio di inferenza, id est come premessa maggiore del sillogismo giudiziario di cui alle regole di valutazione della prova sancite dall'art. 192, co. 2, c.p.p., laddove costituisce, invece, una mera congettura, in quanto tale inidonea ai fini del sillogismo giudiziario, tanto l'ipotesi non fondata sull'id quod p/erumque accidit, insuscettibile di verifica empirica, quanto la pretesa regola generale che risulti priva, però, di qualunque e pur minima plausibilità (cfr. Cass. 24 giugno 2009, n. 27862; Cass. 15 aprile 2009, n. 15897; Cass. 13 febbraio 2007, n. 16532).  Esse si pongono come premessa maggiore del sillogismo giudiziario, nel quale la premessa minore è costituita dalla circostanza indiziante e la conclusione dal fatto formante oggetto della prova. E poiché, come è stato condivisibilmente osservato, esse, unitamente ai "fatti notori" (cioè a quei dati fattuali ed obiettivi, privi di qualsiasi funzione valutativa, acquisiti al patrimonio conoscitivo della collettività), costituiscono eccezioni al divieto, ricadente sul giudice, di ricorso alla propria scienza privata nella definizione del processo, è agevole rilevare come sia importante definirne l'utilizzo nel processo penale, in particolare nell'accertamento di una fattispecie di reato, come quella di cui all'art. 416-bis c.p. (al riguardo v. Cass. 9 giugno 2006, n. 21102: "In tema di fatti di criminalità di tipo mafioso, la valutazione probatoria deve tenere conto, con la dovuta cautela, anche dei risultati delle indagini storico-sociologiche, per la loro utilizzazione come strumenti di interpretazione, avendone prima vagliato, caso per caso, l'effettiva idoneità ad essere assunti ad attendibili massime di esperienza, e cioè a regole giuridiche preesistenti al giudizio”.
La giurisprudenza di legittimità, consapevole del rischio dell'utilizzo di tale fonte di prova, ha avvertito che il ricorso al criterio di verosimiglianza e alle massime di esperienza conferisce al dato preso in esame valore di prova se può plausibilmente escludersi ogni spiegazione alternativa che invalidi l'ipotesi all'apparenza più verosimile, ponendosi, in caso contrario, tale dato come mero indizio da valutare insieme con gli altri elementi risultanti dagli atti (Cass. 9 aprile 2009, n. 15897) e che la massima di esperienza dovrà essere la risultante della prudente osservazione di una pluralità di esperienze particolari, accertate in determinati contesti geografico-sociali, dai quali possano desumersi modelli di comportamento tali da essere la regola nell'ambiente selezionato (cfr. Cass. 11 ottobre 2005, n. 46552).
Del resto, é ad "attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità organizzata di stampo mafiose” che fa espresso riferimento la sentenza c.d. Mannino (Cass. S.U. 12 luglio 2005, n. 33748), cioè a quei dati esperienziali dai quali "possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio" e che saranno analizzati nel prosieguo della trattazione.  In definitiva, le cosiddette massime di comune esperienza si distinguono dalle mere congetture, in quanto sono regole giuridiche preesistenti al giudizio, poiché il dato in esse contenuto è già stato, o viene comunque sottoposto a verifica empirica; sicché la regola stessa viene formulata sulla scorta dell'id quod plerumque accidit, rivestendo i caratteri del consolidato ricorrere di una maturata esperienza tratta dal contesto storico geografico, generalmente riconosciuta ed accettata (v. Cass. 9 giugno 2006, n. 21102). Il punto di equilibrio, pertanto, consiste nell'applicazione di un prudente apprezzamento e del dovere di motivazione, nella consapevolezza che la valutazione del giudice "non deve uniformarsi a teoremi e ad astrazioni, ma deve fondarsi sul rigoroso vaglio dell'effettivo grado di inferenza delle massime di esperienza elaborate dalle discipline socio-criminologiche e deve, soprattutto, stabilire la piena rispondenza alle specifiche e peculiari risultanze probatorie, che, sul piano giudiziario, rappresentano l'imprescindibile e determinante strumento per la ricostruzione dei fatti di criminalità organizzata dedotti nel singolo processo (Cass. 14 luglio 1994, Buscemi; Cass. 5 gennaio 1999, Cabib).

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