Nessuno si salva da solo

Dom, 10/11/2019 - 09:00
Una pena che prevede solo anni di galera da scontare non basta. Il gretto giustizialismo non migliora chi si è perduto. Serve interrogarsi sulla genesi dei fenomeni che conducono al reato, sulle responsabilità, sulla distribuzione delle risorse e degli investimenti necessari affinché la pena abbia davvero una funzione rieducativa. Anche se questo significa disturbare i poteri politici-economici che dall’attuale situazione traggono beneficio. È questa l’opinione del pm reggino Stefano Musolino.

Nei primi anni Novanta, a seguito delle stragi di mafia e della morte di Falcone e Borsellino, venne modificato l'articolo 4 bis dell'ordinamento penitenziario: se prima essere condannati all'ergastolo significava lasciare a un uomo, che avesse tenuto una buona condotta, almeno una speranza di poter uscire in permesso dopo 10 anni, in semilibertà dopo 20 e in libertà condizionale dopo 26, da allora in poi non furono più previsti benefici o misure alternative per crimini particolarmente gravi connessi a mafia e terrorismo, salvo che vi fosse un ravvedimento palese del reo sotto forma di collaborazione con l'autorità giudiziaria (fenomeno del cosiddetto "pentitismo"). In assenza di una fattiva collaborazione con l’Autorità Giudiziaria il condannato veniva privato del diritto alla speranza, ossia, della possibilità di riguadagnare, un giorno, la propria libertà. Sarebbe uscito dal carcere in una bara, da morto. Insieme alla vita gli veniva tolta la possibilità di riscatto, la possibilità di non essere solo il suo errore. Era come assistere lentamente alla sua morte da vivo, tanto che, nel 2007, 310 ergastolani scrissero all'allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano chiedendogli di tramutare l'ergastolo ostativo in pena di morte. Lo scorso 7 ottobre, la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che l’ergastolo ostativo previsto dal nostro ordinamento penitenziario è contrario al principio della dignità umana e, conseguentemente viola l’art. 3 della Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo. La sentenza della Grande Chambre restituisce, quindi, ai giudici la possibilità di valutare caso per caso e decidere se il detenuto possa ottenere benefici, cancellando quell'automatismo (fattiva collaborazione con l'autorità giudiziaria) che trasformava l'ergastolo ostativo in una pena senza speranza di reintegrazione sociale, contrariamente a quanto previsto dalla Costituzione.

All'indomani della sentenza si è sollevato un vespaio di polemiche che ha visto divisi giuristi, magistrati e opinione pubblica. Per comprendere meglio cosa comporterà la sentenza della Grande Chambre abbiamo intervistato il pm Stefano Musolino, magistrato in forza alla Dda reggina.

"Hanno riammazzato Falcone e Borsellino" ha titolato in prima pagina Il Fatto Quotidiano dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Sotto, le facce dei giudici di Strasburgo tacciati di "non sapere cosa sia la mafia" e di "armare di nuovo i boss". Dopo la pronuncia della Corte Costituzionale sull'ergastolo ostativo, anche magistrati come Grasso, Di Matteo, Roberti, Cafiero De Raho hanno parlato di un antistorico cedimento alla mafia. Lei cosa ne pensa?

Ho grande rispetto per le opinioni dei magistrati che ha menzionato e di molti altri che hanno espresso posizioni omologhe, ma non condivido le loro posizioni. La circostanza che il Giudice nazionale delle Leggi e il Giudice internazionale dei Diritti Umani abbiano assunto posizioni sovrapponibili su questi temi è, di per sé, sintomo dell’esistenza di gravi pregiudizi ai diritti fondamentali dei detenuti, che non possono essere liquidati con gli slogan degli organi di stampa che lei ha citato. Blandire le paure sociali e individuare “colpevoli” su cui scaricare le frustrazioni collettive è una semplificazione dialettica che conquista lettori e “like”, ma non è certo un modo efficace di comprendere e affrontare i problemi.

Più in generale, non credo che il contrasto alla criminalità organizzata passi per un inasprimento delle sanzioni o per l’ampliamento dello strumentario investigativo. Da questo punto di vista, la nostra legislazione è tarata in maniera funzionale allo scopo di perseguire il fenomeno, entro limiti costituzionalmente accettabili. Forzare questo equilibrio, cedendo alla tentazione di utilizzare vite umane imprigionate come simbolo, funzionale alle esigenze preventive generali, lo ritengo, invece, costituzionalmente inaccettabile.

Se devo cercare qualcosa di “antistorico” nell’azione di contrasto, mi viene in mente la cattiva distribuzione di uomini e risorse; da questo punto di vista è eclatante la differenza tra Sicilia e Calabria. Sentiamo ripetere da anni che la 'ndrangheta è l’organizzazione criminale più potente, ma basta comparare i numeri di magistrati e componenti della polizia giudiziaria, operanti nel distretto di Palermo e in quello di Reggio Calabria, per comprendere che a quella conclusione non corrisponde affatto una coerente distribuzione delle risorse.

Dobbiamo, infine, essere consapevoli che il contrasto alla 'ndrangheta (ma credo che il concetto possa estendersi alle altre organizzazioni criminali) non passa per una amplificazione degli strumenti di repressione ma, piuttosto, per maggiori investimenti economici e culturali. È più comodo ed è più facile concentrare l’attenzione sui primi, perché affrontare i secondi significa interrogarsi sulla genesi dei fenomeni, sulle responsabilità politiche, sulla distribuzione delle risorse e degli investimenti. E non mi pare che ci sia molta voglia di disturbare il coacervo di poteri politico-economici che trae benefici dall’attuale situazione.

Uno degli allarmi immediatamente lanciati è il rischio di aprire le porte del carcere indiscriminatamente a mafiosi e terroristi. Andrà così?

Nonostante la scarsità di investimenti e di attenzioni, il sistema penitenziario e la magistratura di sorveglianza hanno già dimostrato un’efficace capacità di gestione di queste dinamiche. Gli allarmismi sul punto sono, perciò, del tutto infondati. Piuttosto, mi inquieta il tentativo di aggressione culturale alla capacità discrezionale del giudice. E come se si brandisse il manganello mediatico, per indurre la magistratura a chiedere nuove e deresponsabilizzanti presunzioni normative. Ma noi siamo un potere dello Stato, non funzionari addetti allo smaltimento di pratiche burocratiche e ogni persona, ogni situazione sottoposta al nostro giudizio merita un’attenzione speciale che ci impone valutazioni verificabili e discrezionali, perchè tarate sul caso specifico sottoposto alla nostra attenzione. Non esiste, d’altronde, una normativa capace di regolamentare nel dettaglio tutte le situazioni; per ciò la discrezionalità del giudice è una caratteristica imprescindibile della giurisdizione. Non averne cura significa mettere in pericolo la tutela dei diritti. Non è un caso, infatti, che la discrezionalità del giudice fosse stata limitata, se non coartata in tutti regimi autoritari che hanno segnato la storia europea nel secolo scorso.

Se devo esprimermi per slogan (sebbene non mi piaccia semplificare dinamiche complesse) direi che è più accettabile (sul piano dei costi-benefici costituzionali) un errore, in buona fede, del giudice a favore di un detenuto immeritevole, anziché cento detenuti costretti a un generale regime deteriore che non tiene conto del loro percorso personale, per impedire che possa verificarsi il predetto errore.

Rendere l'ergastolo più "dolce" potrebbe scoraggiare i condannati per mafia a collaborare?

L’assunto che la normativa “ostativa” abbia costituito uno stimolo alle collaborazioni con la giustizia è tutto da dimostrare; sebbene venga affermato come un dogma. Io credo che una collaborazione genuina e attendibile – che, rammento, sono requisiti qualitativi imprescindibili per l’ammissione del dichiarante allo speciale programma di protezione e, in quanto tali, oggetto di specifica valutazione – passi per una seria e radicata volontà di recidere con i legami personali, economici, talvolta anche parentali che stavano alla base della partecipazione all’associazione mafiosa. Purtroppo, la prospettiva di lunghe e, a volte, interminabili detenzioni, è messa in conto da chi aderisce alla 'ndrangheta. Per quella che è la mia esperienza professionale, posso affermare che sia il costo personale legato alla rottura dei legami personali, familiari ed economici il più importante ostacolo alla scelta di collaborare con la giustizia; gli anni di galera da scontare, vengono dopo e sono subvalenti nella scelta.

Cosa pensa in generale del sistema penitenziario italiano?

Che, nonostante i sacrifici e l’abnegazione di chi ci opera, rappresenta un luogo di concentrazione della marginalità sociale, piuttosto che un luogo di rieducazione. E il problema, in questo senso, non sono tanto i detenuti delle varie mafie, ma quelli che ci risiedono per reati connessi al traffico di modeste quantità di stupefacenti, ai reati patrimoniali bagattellari e altre forme di criminalità, espressione del disagio sociale. È l’aggravamento delle sanzioni e dei trattamenti processuali e detentivi di questi detenuti, il vero scandalo per chi ha, davvero, a cuore le sorti del sistema penitenziario.

Se consideriamo che su 100 persone, una volta uscite dal carcere, 80 tornano a delinquere, non ci viene in mente che forse stiamo sbagliando qualcosa?

Se parliamo dei detenuti per reati di marginalità sociale, è certo che stiamo sbagliando qualcosa nelle modalità di trattamento penitenziario di costoro e nella gestione delle cause socio-economiche che stanno alla base della proclività a delinquere. Se parliamo degli associati alle varie mafie, invece, il problema non risiede nelle modalità trattamentali, ma nella resistenza trattamentale di troppi tra questi detenuti. Le indagini ci mostrano come nel carcere molti di costoro tendano a ripetere e mutuare gli stessi schemi relazionali che vivevano all’esterno, replicando le medesime relazioni gerarchiche e, talvolta, persino gli stessi antagonismi tra gruppi. Nessuna rieducazione è efficace, se il detenuto non accetta una revisione del percorso di vita che lo ha portato alla reclusione. Inoltre, molto spesso, il detenuto per reati di mafia che esce dal carcere si porta addosso un marchio che gli rende difficilissimo il reinserimento sociale, consegnandolo, di fatto, ai vecchi percorsi relazionali che gli avevano fatto guadagnare la condanna. Non solo, infatti, mancano sistemi e strutture funzionali a garantire il reinserimento lavorativo, ma le imprese che decidono di assumere questi detenuti rischiano un’interdittiva prefettizia. È l’elefantiasi repressiva che giustifica se stessa e tacita le coscienze, dividendo il mondo tra buoni e cattivi, salvando i primi e punendo i secondi, senza concedere loro alcuna seria possibilità di redenzione. Il risultato finale è radicalmente anticostituzionale, ma consente ottime carriere, protette da un circuito autoreferenziale che si alimenta da sé e sfugge a qualsiasi critica. Giorgio Gaber lo chiamava: il potere dei più buoni!

In Brasile è stato messo a punto un modello di detenzione alternativo, senza guardie né armi, che responsabilizza i detenuti e coinvolge le comunità locali e i giudici. "Qui entra l'uomo, il reato resta fuori" si legge all'interno delle carceri Apac (Associazione di protezione e assistenza ai condannati) nata da un grumo di volontari appartenenti a un gruppo con lo stesso acronimo: "Amando il Prossimo, Amerai Cristo". In questo caso la percentuale delle persone che, una volta uscite dal carcere, torna a delinquere scende al 20%. Perché non si riesce a fare qualcosa di simile anche in Italia?

Perché chi brandisce la clava e vuole fare “marcire in galera” chi commette un reato, ha un consenso sociale straordinario; mentre, dall’altra parte una vera cultura delle garanzie ha lasciato il posto a un gretto giustizialismo, sicché le “manette agli evasori” diventano una delle soluzioni ai problemi finanziari del Paese. Insomma, non c’è la volontà politica e neppure quella popolare.

In ogni caso, il modello brasiliano è inattuabile ai detenuti per reati di mafia. Mi piacerebbe lo fosse, ma purtroppo le indagini ci consegnano una quantità statisticamente significativa di detenuti mafiosi impegnati ad abusare dei trattamenti detentivi meno stringenti, per garantirsi spazi utili a proseguire nelle loro condotte criminali.

Si tratta di dati di fatto, non di opinioni, con cui bisogna fare i conti. Le norme restrittive dell’art. 41 bis O.P. non nascono per le bizze di un legislatore cattivo, ma per l’accertata proclività di alcuni detenuti per reati di mafia a comunicare con l’esterno, per finalità delittuose, mantenendo dal carcere ruoli direttivi delle cosche.

È chiaro che non facevo riferimento ai detenuti per reati di mafia ma a quei reati a cui accennava prima, espressione del disagio sociale. Secondo lei arriverà mai il giorno in cui guardando le carceri, questi enormi blocchi di cemento dove gli uomini vivono ingabbiati e in condizioni disumane, ne riconosceremo l'assurdità?

È una bella utopia, come tale irrealizzabile. Ma è utile a immaginare futuri diversi, ci invita a non accontentarci della mera gestione dell’esistente e a guardare con maggiore compassione all’umanità che vi è ristretta, sentendo la responsabilità personale e collettiva di quelle vite. Nessuno si salva da solo… 

Autore: 
Maria Giovanna Cogliandro
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