Riviera Web - Giardinando
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itRincospermo, ma ce sei o ci fai?
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<div class="field-item even"><p>Quando devo parlare del rincospermo mi si tagliano le vene. Tutto quello che mi viene da dire è: poveretto, poveretto, poveretto. E’ poveretto per millemila motivi. Primo motivo: intanto tutto lo chiamano col nome storpiato: rincosperma, ringospermo, vincospermo, o semplicemente lo confondono col gelsomino. Chiariamo subito: quella pianta così comune si chiama Rhyncospermum jasminoides e non è un gelsomino, ma ci assomiglia solamente. Nella testa della gente suona una sonora formula che recita: fiore bianco +rampicante+ profumo =gelsomino. In realtà il Rhyncospermum è parente delle pervinche, delle plumerie e degli oleandri, non dei gelsomini. Secondo motivo: quando lo si chiama con il suo nome botanico tutti scoppiano a ridere, come se parlassimo di uno spermatozoo rincoglionito. Il suo vecchio nome era egualmente ostico anche se un po’ meno bislacco: Trachelospermum jasminoides. Ma i botanici cambiano periodicamente le attribuzioni alle piante perché alcuni parametri della nomenclatura possono variare. Sicché il Trachelospermum è ora Rhyncospermum. Terzo motivo: il Rhyncospermum è un rampicante, ma il suo fogliame fitto e il fatto di essere uno dei pochissimi, se non l’unico rampicante sempreverde da fiore che sostiene anche gli inverni rigidi, ne ha decretato la diffusione capillare nelle città italiane, in cui le villette e quartieri pavillionaire sembrano essere divise da siepi di Rhyncospermum. Il suo uso quindi non è più quello di rampicante, ma di siepe. Ne è una testimonianza il fatto che una parte della lunga fila di cipressi che facevano da siepe frangivento al campetto da tennis di Siderno, è stata oggi abbattuta e sostituita con una serie di Rhyncospermum. Sicuramente avremo modo, una volta cresciuti, di apprezzare il loro profumo, ma certo non possiamo fare a meno di sottolineare che le brezze del mare, che possono essere anche forti, non saranno certo fermate da una siepe così bassa e potranno tranquillamente spostare la traiettoria della pallina. Quarto motivo: il Rhyncospermum è una pianta molto bella e che quando è fiorita aggiunge una considerevole nota di colore e di profumo al giardino; invece chi lo pianta si ostina a farlo senza fantasia, sopra archetti e inferriate, a volte potandolo raso raso alla recinzione, in modo che il poveretto sembra una sorta di tunica attillata con cui si rivestono muri e perimetrazioni. Alle volte lo si concia né più che meno come un barboncino da esposizione con la coda a pouf e le mechés rosa, facendolo ricoprire una tettoia o un gazebo, e tagliandolo a filo, quasi come una pianta di bosso topiato a forma di cavallo o di pavone. Io non ho parole, signori: l’estetica moderna è dominata da due polarità opposte che si congiungono; da un lato il cattivo gusto e dall’altro l’edulcorazione della divina apparenza. Ecco, il Rhyncospermum “potato a gazebo” è un’immagine che potrebbe esserne l’epitome. Conclusioni: non prendere un rincospermo per farlo crescere su una comune recinzione perimetrale, ma invece meglio per un pergolato o per coprire una tettoia. Affiancateci rampicanti anche molto appariscenti per un effetto contrastato, oppure una Rosa banksiae lutea, che fiorisce contemporaneamente in una tinta di delicato color giallo pulcino: sarà un contrasto delicato e raffinato con il bianco-giallino del rincospermo. Ma il mio accostamento preferito è senz’altro con il caprifoglio (Lonicera caprifolium), naturalizzato nelle nostre campagne. Anche il caprifoglio è molto profumato e ha un colore bianco-giallastro. Persino una pianta da foglia come la comune vite (Vitis vinifera) andrà benone, e con il suo fogliame grossolano farà da contrasto a quello fitto e coriaceo del rincospermo.</p>
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<div class="field-item even">Lidia Zitara</div>
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Sun, 16 May 2010 22:00:00 +0000admin4168 at http://larivieraonline.comUn giardino per i cani
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<div class="field-item even"><p>E’ una verità scontata: un cane cambia la vita. Oltre ad addolcire il carattere e in qualche modo ad insegnare o fortificare la pazienza e la tenacia, il cane rafforza il legame che si ha con le altre persone e con la natura. Con le persone perché è un’ottima scusa per uscire a passeggio in centro o sul lungomare, per vedere gli altri e farsi vedere, per conoscere i fatti del paese, parlare con gli amici e con gli sconosciuti. Con la natura perché i meno socievoli hanno un buon motivo per fare lunghe passeggiate in campagna, lontano dalle altre persone, vicino a fiori ed alberi. Un cane di taglia media vuole un grande spazio per correre e giocare. Un giardino, anche grande, è insufficiente: ci vogliono spazi aperti. Non bastano neanche i parchi e le villette (ma tanto che ne parlo a fare: nella Locride non ci sono parchi e villette neanche lontanamente degni di questo nome), ci vogliono prati lussureggianti, declivi più o meno dolci, scarpate, saliscendi, terrapieni. In poche parole ci vuole un giardino settecentesco all’inglese, di quelli che stanno attorno alla dimora della famiglia reale nel castello di Windsor. Una “campagna ben coltivata” come dicono i testi inglesi di quel periodo, con macchie di alberi, collinette, vallecole, stagni, laghi, staccionate e vialoni dove passeggiare placidamente seguendo i propri cani con lo sguardo. Io sono costretta a portare i miei cani –che sono un allegro miscuglio di razza medio-grande, desiderosa di correre e saltare- nei pochi spazi residuali di quello che rimane della campagna, negli incolti, dove nessuno si lamenta e cita assurde leggi e decreti barbari che vogliono cani al guinzaglio e con museruola. Vietata l’orribile pista ciclabile sidernese, una vergogna in faccia alla città, dove le signore vanno a correre con tuta e cappello, e diventano isteriche se vedono un innocuo cane che le saluta abbaiando. Vietato il lungomare, vietate le strade cittadine. Un cane di taglia media ha due sole possibilità: o stare al guinzaglio e vivere una “vita da cane”, oppure avere un padrone ricco che possieda ettari di campagna. Io sono costretta a caricarmi i cani in macchina ed andarmela a cercare, la campagna. Perché non si può vivere una vita intera al guinzaglio e con museruola. Anche un barboncino, una volta o l’altra, dovrebbe essere condotto in campagna a rotolarsi nell’erba. Ne uscirà un po’ sporco e spettinato, ma un cane non è una bambola o un soprammobile. In questo periodo della mia vita desidero un giardino per i cani: in una sola parola, la campagna.</p>
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<div class="field-item even">Lidia Zitara</div>
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Tue, 17 Mar 2009 23:00:00 +0000admin3359 at http://larivieraonline.comGiallo evidenziatore
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<div class="field-item even"><p>Delle volte la natura non fa scelte felici per il colore dei fiori. E’ vero che il giallo è il colore più diffuso (dev’essere quello che le api vedono meglio) ma il giallo elettrico dell’Oxalis pes-caprae fa legittimamente sorgere dei dubbi sulla saggezza della Natura e induce in pensieri poco religiosi. L’Oxalis pes-caprae è quel fiorellino giallo con la foglia a trifoglio che colora i nostri prati all’inizio della primavera. E’ in assoluto il fiore più diffuso nelle nostre zone, e probabilmente in Italia. Non viene da qui, ma dal Sudafrica e si è ben naturalizzata al punto da diventare elemento acquisito del nostro paesaggio rurale. Ormai il suo colore giallo evidenziatore è diventato il segno che i rigori dell’inverno si stanno per spegnere. E proprio come una linea tracciata da un evidenziatore, il suo colore sottolinea i profili delle colline e dei declivi delle campagne. In Inghilterra il risveglio primaverile è preannunciato da un altro fiore: una piccola campanula chiamata Hyacinthoides non-scripta (sinonimo Endymion non-scriptus e Scilla non-scripta), che colora di azzurro i prati e il sottobosco. Questa piccola campanula azzurra, che a noi ci manderebbe letteralmente in deliquio per la sua bellezza e il suo colore, in Inghilterra è talmente diffusa da avere stufato la popolazione, che la considera una terribile infestante. I giardinieri più sofisticati ormai la disprezzano e la scacciano dai loro giardini, mentre qui in Italia se ne acquistano i bulbi, che sono piuttosto economici, per piantarli in giardini selvatici e naturali, allo scopo di naturalizzarli ed avere un “effetto Inghilterra” . Sicuramente se tutta l’Oxalis pes-caprae fosse magicamente sostituita dalla campanella azzurra dell’Inghilterra, tutti ne saremmo contenti, perché l’azzurro è un colore molto gradito sui fiori, mentre il giallo è altrettanto sgradito. Tuttavia il verde del nostro paesaggio ne soffrirebbe, perché l’azzurro è bello sì, ma è spento e mortuario, mentre il giallo, sebbene sia così acceso, limoncino e lucidato, è più allegro e campestre. Nessuna nostalgia dei campi inglesi, meglio la nostra proletaria Oxsalis. Possiamo aggiungere che è una pianta molto funzionale: è molto amata dalle api, che del suo polline iniziano a cibarsi anche nei mesi freddi, e a volte può portare fortuna. A questo genere appartiene infatti il “quadrifoglio”. Trovare una foglia di Oxalis a quattro lobi è infatti difficilissimo. Un quadrifoglio porta fortuna ed ha il potere di spezzare gli incantesimi delle fate.</p>
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<div class="field-item even">Lidia Zitara</div>
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Sun, 08 Mar 2009 23:00:00 +0000admin3307 at http://larivieraonline.comRose & Lavoro
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<div class="field-item even"><p>San Valentino è passato. Per fortuna. Che noia queste feste commerciali che ci ossessionano per tutto l’anno, con i loro obblighi, i sorrisi forzati, le spese, le telefonate, i mal di testa che si portano dietro. San Valentino poi, non ha niente di speciale, nessuno charme, nessuna aura di magia, nessun senso di vera festa. Eppure, in questo mondo che si regge sul consumo e non sulla produzione (come Daniel Bell ha avuto modo di rilevare e Zygmunt Bauman di approfondire), pare che queste spese che siamo costretti a fare nel giorno degli innamorati, degli zii, dei bis-nipoti, siano di una certa rilevanza per la sopravvivenza dell’economia. Quindi mettiamoci l’anima in pace e cacciamo fuori il portafogli. Un regalo inusuale per degli innamorati inusuali, potrebbe essere un libro; e sarebbe ancora più inusuale se questo libro fosse Rose & lavoro. Dal Kenya all’Italia, l’incredibile viaggio dei fiori, di Pietro Raitano e Cristiano Calvi, edizioni Altreconomia. Un libro in cui ci vengono raccontate le molte cose che si celano dietro un comune mazzo di rose rosse. Le multinazionali olandesi insediano nei paesi del Terzo Mondo, infinite distese di serre non riscaldate per la coltivazione di rose ed altre piante. Lo sfruttamento del lavoro nei paesi sottosviluppati, come Kenya, Colombia, Venezuela, è alla base della produzione delle rose da taglio vendute nel periodo invernale. In particolare le donne sono la categoria più svantaggiata, e le molestie e gli stupri da parte dei caposquadra sono all’ordine del giorno. Le serre vengono periodicamente irrorate con pesticidi, ma i tempi di areazione non vengono mai rispettati, cosicché la maggior parte dei lavoratori finisce col contrarre prima o poi delle gravi malattie polmonari per le quali non hanno diritto di ricevere nessuna cura. I pesticidi finiscono nei laghi e nei fiumi, inquinando pesantemente la falda acquifera. A Naivasha, in Kenya, dove c’è un lago enorme vicino al quale vivono molti animali selvatici, la Sher Agency, la più grande multinazionale mondiale produttrice di fiori da taglio, ha usato l’acqua del lago per annaffiare le piantagioni, causando un abbassamento della superficie di diversi metri. In pratica stanno prosciugando un lago che è la sola riserva d’acqua della zona. Il mercato dei fiori da taglio copre anche speculazioni finanziarie che hanno come oggetto il commercio illegale di diamanti e il traffico d’armi, che alimentano guerre locali fratricide. Naturalmente non criminalizziamoci: nel nostro mondo anche soffiarsi il naso implica lo sfruttamento di qualcosa o di qualcuno. Però -magari- la prossima volta che andate a comprare delle rose, chiedete almeno che siano di produzione locale (tra l’altro dureranno anche di più).</p>
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<div class="field-item even">Lidia Zitara</div>
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Sun, 22 Feb 2009 23:00:00 +0000admin3252 at http://larivieraonline.comLa mimosa delle donne
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<div class="field-item even"><p>Diamo un’occhiata fuori: le mimose sono in fiore. Poi diamo una controllatina al calendario, è il 15 febbraio: siamo a mala pena a Carnevale, figuriamoci alla festa della donna. Sembra che alla mimosa non piaccia molto essere stata eletta a “fiore della donna”, e che si vendichi fiorendo con un mese di anticipo, anche quando gli inverni -come questo- sono lunghi, freddi e piovosi. Questa fioritura anticipata produce l’inevitabile effetto che l’8 di marzo le mimose comprate dal fioraio costeranno un capitale, qualcosa come 5 euro a rametto. La mimosa, infatti, è in assoluto il fiore da taglio che guadagna e perde valore più rapidamente in concomitanza con la “scadenza” del festeggiamento. Le mimose delle donne appartengono al genere Acacia e alla specie dealbata, ma di acacie ne esistono un’infinità, tutte a fiori più o meno giallini e piumosi. Ma noi in Italia chiamiamo “acacia” un’altra pianta, la robinia, che è poi quell’albero dai rami spinosi che si usa come filare sull’A3 e sul lato costiero della Statale 106. E’ un albero molto profumato da cui si ricava il miele (il famoso miele d’acacia). La vera mimosa, invece, è un albero molto elegante con bel fogliame e fiori piumosi rosa. Riassumendo, in Italia c’è proprio un bel casino tra mimose, acacie e robinie: è la trasandatezza linguistica con cui solitamente da noi si affrontano le questioni attinenti al giardinaggio. La “mimosa” delle donne si è conquistata nel tempo una certa posizione nei giardini di città. In campagna invece non è molto coltivata. Forse è l’indole borghese, cittadina, delle signore-bene (…) a desiderare di avere in casa il fiore simbolo delle donne. Come albero da città la mimosa non è neanche disprezzabile, nonostante la sua connotazione commerciale e la bruttezza del suo colore. Il fogliame è molto aggraziato, e quando è completamente fiorita sta molto bene vicino a fogliami dalla tonalità scura, come quelli delle palme in genere, con cui si accorda anche per portamento, fornendo un dolce contrasto di curve ai fusti cilindrici che finiscono nel ciuffo apicale. Quindi pianterei la mimosa in un bel giardino mediterraneo, tra Howea (la kentia), Phoenix canariensis e Washingtonia, che sono le palme alte più diffuse in Calabria. Sarebbe auspicabile che a tutto ciò facesse da sfondo un edificio antico, con una fontana nel cortile centrale e i muri di recinzione in pietra a vista. Insomma, il classico stile signorile calabrese. Da non dimenticare un’acacia molto famosa e diffusa, la “gaggia”, (Acacia farnesiana) che ormai è in forte diminuzione nei giardini per il suo aspetto poco avvenente e un po’ campagnolo. Tuttavia se è possibile raccogliete dei semi (per talea non esce) e riproducetela voi stessi, vale la pena per il suo profumo, uno tra i più celestiali del mondo vegetale.</p>
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<div class="field-item even">Lidia Zitara</div>
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Sun, 15 Feb 2009 23:00:00 +0000admin3195 at http://larivieraonline.comRustico e delicato
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<div class="field-item even"><p>Mangiare bene, andare in palestra, enoturismo, bingo e gratta e vinci, internet, golf. Sono alcune delle passioni degli italiani. Da una statistica recente il giardinaggio è in netta crescita, fino a contendere il posto a fatturati enormi, come quello del bric-à-brac, con cui peraltro va a braccetto anche sul piano commerciale. Insomma, la verità è che l’interesse per il giardinaggio è molto aumentato negli ultimi vent’anni, ma lo stesso non si può dire della cultura che l’accompagna. Le nozioni di chi lo pratica sono spesso elementari. Inoltre i giovani d’oggi dimostrano di avere perduto intuito e fantasia, sopiti da videogames, chat ed SMS. Chi si avvicina al giardinaggio non ha quindi una cultura ereditata da mamme, nonne e zie, e ancor più spesso ha una coscienza artistica a cui fare riferimento (grazie! I programmi ministeriali stanno tagliando gli insegnamenti di Storia dell’Arte con lo stesso vivace ritmo con cui tagliano le pensioni e aumentano le tasse: tra un po’ un giovane diplomato non saprà distinguere la Gioconda da un quadro astratto). Uno dei luoghi comuni più duri a morire è la differenza che passa tra “rustico” e “delicato”. Se dico “rustico” vi verrà in mente qualcosa che riguarda la campagna. Dicendo di una pianta che è “rustica” si vuol dire che è adatta alla coltivazione in giardinetti di campagna, in aiuole informali, alla buona, senza pretese. Così nel nostro immaginario una pianta rustica è la malvarosa, oppure il girasole, o la bella di notte. Niente di più errato. “Rustico” in gergo orticolturale, significa “che resiste al freddo”. Rustiche quindi sono magnolie, camelie, peonie, ortensie (e molte altre). Tutte piante che noi consideriamo “eleganti”, da giardino di città. Veniamo al “delicato”. Come molti avranno capito è l’opposto di “rustico”, e quindi significa “che non resiste al freddo”, come le palme, le piante tropicali, quelle da interno, le orchidee epifite, la maggior parte delle piante grasse. Esistono diversi gradi di rusticità, da molto delicato, passando per semirustico, a completamente rustico. Esistono anche delle “zone di rusticità”, dette zone USDA, determinate dal Dipartimento statunitense dell’Agricoltura (United States Department of Agricolture) che vanno dalla 2a alla 11. La prima è la più fredda, l’ultima è la più calda. Sono sicura che sarete curiosi di sapere a quale zona USDA appartiene il vostro comune. Siderno è in zona 10a, Catanzaro in zona 9b, che sono le due più diffuse sulle coste. La zona 10b in Calabria, e probabilmente anche nel resto d’Italia, comprese le zone più calde della Sicilia e della Sardegna, non esiste. Nell’interno le zone di rusticità variano molto a seconda dell’altitudine.</p>
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<div class="field-item even">Lidia Zitara</div>
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Wed, 11 Feb 2009 23:00:00 +0000admin3178 at http://larivieraonline.comVecchie e nuove rose
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<div class="field-item even"><p>Non amavo le rose. Le trovavo delle ragazze dozzinali, stupidotte e troppo truccate, con profumi mediocri, un po’ flaccide e senza fiato, come lo sono le ragazze di oggidì. Anche io -come tutti- conoscevo solo le rose moderne, gli Ibridi di Tè venduti dai fiorai, nell’immaginario comune sempiternamente accompagnati dall’ immobile nebbiolina. Ora che ci ripenso non era un errore non amarle. Le rose Ibride di Tè, note all’establishment giardinicolo con la sigla “HT”, che vuol dire Hybrid of Tea, quelle vendute dai fiorai, sono una parvenza del fiore che fu la rosa, una presa in giro, una pietosa aberrazione creata dal commercio. Le rose del fioraio non hanno più nulla a che vedere con le “rose”, neanche con le loro dirette parenti, queste HT nominate prima. Sono solo prodotti immessi sul mercato per essere venduti e acquistati, non mantengono nulla della grazia del fiore: hanno perso ogni profumo durante la dormienza in freezer, ogni delicatezza della trama dei petali sotto lo spray lucidante, e per di più si afflosciano al primo sguardo, non arrivano a durare neanche mezz’ora. Grazie, sono ormai “vecchie”. Hanno addosso un paio di giorni di viaggio in un cargo aereo che le porta in Europa dal Kenya o dal Sud America, poi un altro giorno per lo smistamento in Olanda, e poi chissà quanto tempo chiuse nelle celle frigorifere. Non a caso quando i fiorai le tirano fuori trionfanti dalle loro scatole, le foglie sono ormai flosce e spente: un cadavere di rosa. In molti dicono “non mi piacciono le rose”, non me ne stupisco: come potrebbero piacere simili relitti mummificati dal vago odore di acqua marcia? Se queste sono le suggestioni estetiche che i fiorai riescono a trasmetterci riguardo ai fiori, andiamo bene. Queste “rose da fioraio” hanno completamente spodestato dai giardini le vecchie rose, proprio perché erano adatte al taglio, alla conservazione in frigo e alla vendita. Le vecchie rose non si prestano a queste vessazioni, e hanno fiori completamente diversi da quelle del fioraio, sono cicciottelle e spampanate, solitamente molto profumate e con spine piccole e fitte. I pittori fiamminghi le dipingevano in grandi composizioni che sfidavano la legge di gravità. Piene e vaporose, con petali sottili e cartacei, e al centro un bottoncino verde. Le HT hanno una suggestione del tutto diversa, e una bella varietà come la ’Abbaye de Cluny’, seppur moderna, ha un aspetto che fa molto “anni Trenta”. Ovviamente dai fiorai non si trova.</p>
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<div class="field-item even">Redazione</div>
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Sun, 01 Feb 2009 23:00:00 +0000admin3118 at http://larivieraonline.comI giardini segreti del cuore
http://larivieraonline.com/i-giardini-segreti-del-cuore
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<div class="field-item even"><p>E’ un dato di fatto: la vita trova sempre il modo di metterti con le spalle al muro. Ci riserva a volte, momenti davvero brutti. Un giardino aiuta in questi casi. Il cervello e lo spirito umano hanno una sorta di meccanismo di autodifesa per cui il pensiero corre alle piccole cose del quotidiano, anche in momenti in cui si vorrebbe fuggire dalla propria vita. Mentre una flebo scorre o si fa una speranzosa fila dal medico, spesso la mente si sposta senza accorgersene su piccoli pensieri che la distraggono: il giacinto che cresce nel ripostiglio, il capelvenere sulla mensola in bagno, il libro di giardinaggio che ci attende la sera sul comodino, quando la giornata sarà finita e saremo nel nostro letto avvolti da quell’unico stato d’animo di ristoro riservatoci durante il giorno. Sono piccoli momenti ritagliati alla bruttura della vita, con un sentimento di pervicace ostinazione nella speranza di una concessione futura, di un momento di quiete e riposo, che puntualmente non arriva mai. Nella vita di ognuno c’è, e ci deve essere, una “dolcezza che le isole richiama, che avere è sgomento che sazia da ogni pianto” come diceva Quasimodo. A volte è una persona, ma solo nei casi più fortunati, più spesso sono i giardini segreti del proprio cuore, qualunque cosa contengano. Si può pensare alla forma perfetta della quadripartitura della vecchia rosa da giardino ’Konigin von Danemark’, o al suo profumo, un po’ diviso tra l’acqua di colonia e la saponetta del supermercato. Ad un gatto che si rotola nella Nepeta cataria, un’erba che esercita sui felini un’attrazione incoercibile, ai fiori di lavanda che ondeggiano nel vento caldo dell’estate. C’è sempre -per ognuno di noi- un riparo, una sacca di emotività dove andare a rifugiarsi, altrimenti si diventa pazzi. Le offese, le umiliazioni, i dissapori, le avversità, appaiono così affrontabili, perché è come se si avesse una sorta di “riserva” di energia vitale, quell’impegno del cuore e della mente che di mette solo nelle cose che amiamo di più. Non si tratta di generosità, di essere “buoni” o di avere dei “bei sentimenti”. E’ semplicemente autoprotezione. Le piccole angherie dei datori di lavoro appaiono piuttosto meschine messe a confronto delle verdi punte dei tulipani che escono dalla terra, o del profumo dei narcisi spontanei (il Narcissus tazetta subsp. canaliculatus) che fioriscono sulle colline a fine gennaio. E’ chiaro: si tratta dell’amore per la Bellezza, e la gioia che si prova per quelle poche volte in cui la vita non ti schiaffeggia ma ti accarezza e ti blandisce. Sono poche, ma forse tanto più preziose perché sono poche. Tutto il resto può essere contenuto: sciocche pretese, l’asprezza dell’attesa, il sentirsi fuori dal mondo. Ma la Bellezza dilaga nei cuori di chi ne ha bisogno per vivere.</p>
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<div class="field-item even">Lidia Zitara</div>
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Sun, 25 Jan 2009 23:00:00 +0000admin3062 at http://larivieraonline.comNel bel mezzo di un gelido inverno
http://larivieraonline.com/nel-bel-mezzo-di-un-gelido-inverno
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<div class="field-item even"><p>I desideri sono desideri: quando li si prova sembrano unici e personalissimi, fino a scoprire che c’è un mucchio di persone che desidera esattamente le stesse cose: una villetta, un viaggio per un’isola sconosciuta, un pic-nic in campagna. Ci si sente molto stupidi, infine, a desiderare le stesse cose degli altri, è come venire a scoprire di non essere poi tanto speciali e insostituibili. Uno dei miei desideri di sempre -di certo condiviso dalla maggior parte di noi- è un autentico Natale vittoriano, con l’albero ben addobbato con palline e lumini, i bambini che giocano nella nursery, il gatto acciambellato davanti al fuoco, i giacinti forzati nella credenza del salotto, tè, biscotti, il punch caldo, qualcuno che suona una carola al pianoforte. Il Natale arriva, ma poi delude sempre, gli auguri di pace e felicità si sprecano, ma il nuovo anno raramente ci porta buone notizie. L’inverno, poi, per noi mediterranei che viviamo in zona climatica quasi subtropicale, non ha quelle piacevolezze estetiche come la neve che imbianca le colline (ma non tanto da impedire la circolazione del traffico), il ghiaccio che forma stalattiti sulle grondaie (ma senza causare danni all’impianto di scolo), il vento che inviti a rimanere in casa davanti al camino (ma non tanto forte da far rientrare il fumo all’interno della canna, trasformando il salotto in una camera per l’affumicatura delle provole). Uno dei miei desideri è un inverno con la neve e con piante tipiche della stagione. Non so se -a tal proposito- si potrebbe scegliere meglio delle rose da bacca. Le bacche delle rose fanno venire in mente i delicatissimi acquerelli di Marjiolein Bastin, soprattutto quando un uccellino ci si posa sopra per beccarle. Le bacche delle rose sono buone per farci la marmellata e gli sciroppi, e tante di quelle cose che stanno attorno al mondo del giardino e gravitano nella sfera della domesticità, del mondo familiare e di una volta, del tempo delle stufe a legna e dei dolcetti fritti in padella. Si possono portare in casa, recise, e mettere in un vaso di terracotta smaltata, sulla credenza della cucina, magari in compagnia di un rametto di mandorlo. Per ottenere le bacche, ovviamente, non va fatta l’ultima rimonda dopo la fioritura autunnale, ma va lasciata maturare la capsula dei semi. Le varietà più adatte sono le specie selvatiche, ma anche molte varietà ibride hanno bellissimi mazzetti di bacche che durano buona parte dell’inverno. C’è un ottimo vivaio ad Arignano in provincia di Torino che le vende per corrispondenza in tutta Italia, si chiama “Rosebacche” ed appartiene al noto Maurizio Feletig. Per informazioni o per ricevere il catalogo telefonare allo 011/9462377 oppure mandare una mail a <a href="mailto:[email protected]">[email protected]</a>. C’è anche il sito: <a href="http://www.rosebacche.it">www.rosebacche.it</a>.</p>
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<div class="field-item even">Lidia Zitara</div>
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<div class="field-item even"><a href="/rubriche/giardinando">Giardinando</a></div>
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Sun, 18 Jan 2009 23:00:00 +0000admin2997 at http://larivieraonline.comIn picciol vaso gran virtù risiede
http://larivieraonline.com/picciol-vaso-gran-virt%C3%B9-risiede
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<div class="field-item even"><p>La coltivazione in vasi e contenitori è esistita quasi fin dall’inizio della storia del giardino, appena la tecnologia antica riuscì a mettere a punto la tecnica della realizzazione di contenitori di argilla cotta, più leggera della pietra e più durevole del legno. La coltivazione in vaso era già molto nota in epoca romana, soprattutto della Roma imperiale. Alcune ville patrizie avevano balconi e terrazzini arredati con quello che oggi viene chiamato “sistema del giardino pensile”, cioè il fare ricadere giù, mediante tralicci e pergolati sospesi, piante rampicanti e decombenti (non sia mai che se ne vedano, se non per caso, nei nostri paesini di provincia!). I tralicci erano così numerosi e lunghi che i ladri avevano agio di arrampicarsi fino ai tetti e derubare le case. Gli affreschi di Ercolano della Villa di Livia, ci raccontano come vasi ornati con sbalzi e decorazioni, fossero ben noti ai Latini. La diffusione capillare, anche tra i non patrizi, avvenne dopo la penetrazione del culto di Adone o Attis, già ben noto ai Greci (anche ai magno-greci Locridei). Il culto di Adone era di orgigine pre-ellenica ed era un culto solare. E’ la base storica sulla quale si sono innestate le ritualità cristiane, e lo stesso culto cristiano non ne sembra che una copia “modernizzata”. In prossimità di quella che oggi è la festa pasquale, quando Adone risorgeva (…) venivano seminate delle lenticchie in un vaso di coccio rotto, e si aspettavano i germogli. Fino a qualche anno fa questo rito era ancora compiuto anche in paesi grandi come Siderno, ora non so se a parte i vecchi se lo ricordi più nessuno. Dopo la rivoluzione industriale e l’aumento demografico del secondo Dopoguerra, le case si sono sempre più ristrette e lo spazio per i giardini è diminuito. Il balcone o la terrazza hanno così acquistato un’importanza fondamentale nella pratica del giardinaggio, tanto che ci sono interi volumi (in Italia sono solo volumetti) che trattano della coltivazione delle piante in vaso e dell’arredo del terrazzo e dei balconi con cestini pensili. Le necessità di chi ha un balcone o una terrazza hanno determinato uno scatenarsi dell’ibridazione a favore di miniaturizzazione e rimpicciolimento di piante, dimodoché fosse possibile coltivarle in vaso, con risultati a volte apprezzabili, a volte ridicoli. La cosa più importante per la coltivazione in vaso è il drenaggio. Uno strato di fondo di almeno dieci cm (in un vaso grande), di ghiaia lavata o di argilla espansa. E buttate via il terriccio universale, sempre consigliato da libri e riviste. Quello è buono appena per la lettiera del gatto. Andate in campagna e prendete il terriccio che risiede sotto le querce o sotto gli ulivi, se deve essere argilloso. E’ pesante, è faticoso, lo so, ma ne vale la pena.</p>
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<div class="field-item even">Lidia Zitara</div>
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<div class="field-item even"><a href="/rubriche/giardinando">Giardinando</a></div>
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Mon, 12 Jan 2009 23:00:00 +0000admin2979 at http://larivieraonline.com